l’intervento 2

di Daniele Capezzone*

Senza scomodare Pintor, e senza pretendere di adattare un dubbio di sinistra di 30 anni fa ai dilemmi politici del centrodestra di oggi, c’è davvero da chiedersi se saremo costretti a «morire democristiani». Infatti, con una fretta di per sé sospetta, troppi osservatori preoccupati di archiviare il berlusconismo hanno detto e scritto che il futuro del Pdl starebbe nella convergenza in una nuova Dc, peraltro fortemente connotata in senso confessionale. E, per avallare e corroborare questa previsione, si cita l’ancoraggio al Partito popolare europeo. Questa analisi, a mio avviso, è da respingere, almeno per quattro fondamentali ragioni.
1. La caratteristica vincente del berlusconismo è stata una sorta di «fusionismo» anglosassone, cioè la capacità di tenere insieme, sotto l’ombrello di una forte leadership, storie e culture diverse: liberali e cattolici moderati, tradizionalisti e libertarians, tanti socialisti, e naturalmente i protagonisti della destra nazionale. Così dovrà essere anche in futuro, se il Pdl vorrà continuare (e non si vede perché non dovrebbe volerlo) a rappresentare la maggioranza sociale del Paese.
2. La stessa storia della Democrazia cristiana italiana non può essere piegata e caricaturizzata. De Gasperi, anche quando avrebbe forse potuto giocare la carta dell’autosufficienza, non volle rinunciare all’alleanza con i liberali (e con i coraggiosi socialdemocratici, autori di una storica rottura a sinistra). E anche in anni meno lontani, in cui la Dc fece purtroppo prevalere la logica della gestione a quella delle riforme, quasi mai commise l’errore di schiacciarsi su posizioni di puro e semplice integralismo: e nei rari casi in cui lo fece, come nel referendum anti-divorzio, rimediò una salutare e cocente sconfitta. Evento, quest’ultimo, che a mio personale parere dovrebbe indurre alla prudenza quanti vorrebbero riproporre linee ultraconfessionali, ad esempio in materia di bioetica. Tutti i sondaggi, inclusi quelli relativi ai cittadini credenti, attestano una forte contrarietà degli elettori a interventi legislativi volti a comprimere le libertà personali: e allora perché insistere?
3. Chi descrive il Ppe come una formazione confessionale mostra di non conoscerlo. Oggi il Ppe unisce formazioni diverse tra loro, cristiano-democratiche, liberal-conservatrici, liberali, connotate soprattutto per un approccio economico più di mercato rispetto ai socialisti europei, e che, su ogni altro tema, non sono certo meno liberali rispetto agli stessi «liberali ufficiali» europei, sui quali basterà dire che la componente italiana più forte è rappresentata dagli eurodeputati dipietristi. E abbiamo detto tutto.
4. In troppi fingono di non comprendere un punto che tutta la leadership del Pdl ripete con compattezza: e cioè una difesa convinta di un forte bipolarismo, che è la migliore garanzia di non tornare al peggio della Prima Repubblica, non solo per evitare lo spettacolo di governi fatti e disfatti alle spalle degli elettori, ma anche per scongiurare l’idea che debba esserci un partitone post-Dc come centro di gravità permanente del sistema politico.

Detto ancora più nettamente: una cosa è il possibile (e auspicabile) incontro liberale tra laici e cattolici in ciascuna delle due maggiori forze politiche, a destra come a sinistra; altra cosa (che riporterebbe indietro le lancette della politica) sarebbe un indistinto magma centrista, illiberale sulle questioni di coscienza, e candidato solo alla gestione (semi)perpetua del potere.
*portavoce del Pdl

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