L'antenato creò il dizionario Lui ha unito penna e bisturi

Vita e morte, storia e letteratura si sono intrecciate fra le sue dita affusolate e curatissime, a dispetto del nomignolo affibbiatogli da bambino, Masetto, che avrebbe potuto assimilarlo al rozzo contadino del Don Giovanni di Mozart. Il nobiluomo - «ma gh'ha importansa scrìvarlo?» - Tommaso Tommaseo Ponzetta, nato a Venezia il 9 dicembre 1928, è stato per 10 anni al fianco del mitologico professor Pietro Valdoni, il caposcuola della chirurgia italiana, che il 14 luglio 1948 salvò la vita a Palmiro Togliatti, segretario del Pci, raggiunto da tre colpi di pistola sparati dallo studente Antonio Pallante. «Chirurgo si nasce, ma poi bisogna diventarlo», mi diceva. «Alto, severo, di bell'aspetto, i baffi appena accennati, la scriminatura sempre perfetta, Valdoni assomigliava all'attore Walter Pidgeon e incarnava fin nel portamento il barone della medicina». Dal direttore dell'Istituto di clinica chirurgica del Policlinico Umberto I di Roma, al quale Giovanni XXIII affidò le proprie spoglie mortali dopo che il luminare gli aveva diagnosticato un cancro inoperabile allo stomaco, Tommaseo ha imparato la lezione più grande: «Quando fai una cosa, falla in modo che in quel momento nessuno al mondo possa farla meglio di te». In 40 anni di ospedale, 23 dei quali passati come primario a Treviso, specialista in chirurgia generale e toracica, ha totalizzato 20.000 interventi: «Conservo ancora date, nomi, cognomi e patologie di tutti i pazienti che ho operato». Pioniere dei trapianti renali, dal 1977 al giorno della pensione ne ha eseguiti oltre 400. Con il professor Vincenzo Gallucci, che poi morirà in un incidente d'auto, a Padova nel 1985 portò a termine con successo il primo doppio trapianto cuore-reni in Europa.
Ma il professor Tommaseo Ponzetta - «el me ciàma solo Masetto, par piasér» - ha sempre usato la penna con la stessa bravura che dispiegava nel maneggiare il bisturi. Ad accorgersi di questa abilità accessoria fu Goffredo Parise, «l'amico ondivago», che un giorno dell'estate 1976, dopo aver letto sul Gazzettino un racconto a firma del medico, gli telefonò per rallegrarsi dal bar Sessolo di Ponte di Piave, dove la mattina andava a bere il caffè e a scroccare la lettura del quotidiano: «Devi operare di meno e scrivere di più». Consiglio còlto al volo, come dimostrano i quattro titoli, Il tempo delle gazzose, La carrozza del nonno, Per raggiunti limiti di età, Il bisturi e la vita, pubblicati fino a oggi, accompagnati dalle prefazioni di Andrea Zanzotto, Nico Naldini e Mario Bernardi, cari all'autore almeno quanto Parise. Il quale alla lettera “F” del Sillabario n.1 si raccontava così: «Un giorno, anni fa, un uomo che non aveva mai nessuno che girava per casa conobbe una famiglia di nome Tommaseo...».
La fecondità letteraria trova forse spiegazione nel fatto che il chirurgo scrittore è imparentato con Niccolò Tommaseo, il letterato e patriota nato nel 1802 a Sebenico, in Dalmazia, che nel 1830 diede alle stampe il Dizionario dei sinonimi e fra il 1858 e il 1879 compilò il monumentale Dizionario della lingua italiana. In realtà l'«egregio puttaniere» - definizione di Carlo Dossi - detestato da Alessandro Manzoni («l'è ora de finilla con 'sto Tommaseo, ch'el gh'ha on pée in sagrestia e l'alter in casin») non lasciò discendenti diretti: solo una figlia suora, Caterina, e un figlio, Girolamo, morto senza eredi. «Il linguista apparteneva a un ramo della famiglia del mio trisavolo Pietro Tommaseo, iscritta dal Seicento nel patriziato della Serenissima. Da tal Ponzetta, suo socio nel commercio di vino e olio, Pietro ricevette in lascito sostanze e cognome. Abbandonate le terre dalmate, giunse a Venezia via mare, ebbe 14 figli e s'insediò nella villa di Ponte di Piave, una tenuta affacciata sul fiume lungo la via Postumia, dove giace sepolta la mia età più bella, nel senso che vi sono cresciuto e tuttora vi abito. Mio nonno Pietro, suo nipote, fu all'origine della mia vocazione per la medicina».
Era medico?
«Dottore in legge. A 68 anni si vide requisire la casa dai soldati tedeschi. Durante un bombardamento ebbe un collasso. Il medico condotto Giuseppe Rossi lasciò a me il compito di praticargli le iniezioni. Mi esercitai su una coscia di tacchino. Dopo la prima puntura, al nonno venne un terribile ascesso. Tornò il dottor Rossi, che sentenziò, come Galeno: “Ubi pus, ibi evacua”. Non le dico che cosa uscì dall'incisione. Poi infilò il dito nel cratere e cominciò a frugare: “Lo faccio perché la ferita granuli dal basso. Deve guarire per seconda intenzione”. Il nonno urlava, io quasi svenivo. Ecco, ho esordito con un caso di malasanità».
Ma Valdoni la prese lo stesso con sé.
«Nel 1955, appena laureato in medicina e chirurgia a Padova, mi presentai emozionato a Roma, chiedendogli di poter frequentare la sua scuola. Valdoni fu spicciativo: “Guadagno zero, disponibilità assoluta, presenza in istituto anche il sabato e la domenica. Con il tempo potrei ammetterla come strumentista al tavolo operatorio”. Concluse: “Il matrimonio giunge dopo il fidanzamento”».
Quando si dice venire dalla gavetta.
«Al primo intervento chirurgico, Valdoni mi apparve per quello che era: un dio. Non parlava mai. Imparavi osservandolo, ma era quasi impossibile seguire i suoi gesti, perché aveva una velocità di esecuzione folle. Andavi in confusione mentale. Sopra i guanti di lattice, ne indossava un paio di lino. Porgeva la mano senza distogliere lo sguardo dal corpo del paziente e lo strumentista doveva già sapere, senza esitazioni, quale ferro passargli. Solo una volta, ormai ero al suo fianco già da otto anni, aprì bocca mentre operava: “Lei chi è?”. Mi sentii morire. “Ah, è Tommaseo. E pensare che riponevo tante speranze nella sua persona. Ma vedo che va avanti come i gamberi, camminando all'indietro”».
Che cosa aveva combinato?
«E chi se lo ricorda? Nulla di grave. Era di un'intransigenza insopportabile, ma io lo adoravo: per la sua autorevolezza, non per la sua autorità. Entrando in sala operatoria, dava a tutti del lei. All'uscita tornava al tu. C'illudemmo che l'incontro con Giovanni XXIII lo avesse raddolcito, si parlò di un suo avvicinamento alla fede. Invece continuò a fustigarci».
Fu chiamato al capezzale anche di altri pontefici, se non ricordo male.
«Si occupò dell'ernia iatale di Pio XII, ma decise che non fosse opportuno intervenire. Anche con Papa Roncalli rinunciò a operare: troppo anziano e obeso per sopportare l'ablazione totale dello stomaco. Emise all'istante, senza bisogno di lastre, la diagnosi clinica di tumore, poi suffragata da una radiografia del tubo digerente. Da grande medico qual era, volle che a confortarlo nella scelta di non intervenire fosse il suo rivale, Achille Mario Dogliotti. A Paolo VI asportò la prostata ipertrofica in una sala operatoria allestita per l'occasione in Vaticano».
Lei a che età ha avvertito la vocazione per la chirurgia?
«A 14 anni. Un fatto d'istinto più che di raziocinio. Odiavo la matematica e spesso marinavo il liceo per andare a giocare a pallone sulla spiaggia del Lido. Siccome tornavo a casa con la sabbia nel risvolto dei pantaloni, ai miei dicevo che a scuola c'erano i muratori. Anche Parise s'era iscritto a medicina. Se fosse diventato chirurgo, avrebbe frugato nei corpi come sapeva fare nelle anime. Nell'aprile 1976 mi disse a bruciapelo: “Devi mostrarmi com'è fatto un tumore”».
E lei?
«Lo accontentai. Gli feci indossare camice, guanti, berretto, mascherina e soprascarpe e lo portai in sala operatoria. Quando, finita la resezione intestinale, ebbe fra le mani il reperto anatomico che avevo asportato, un carcinoma di forma vegetante, a cavolfiore, prese a esplorarlo. Poi sbottò: “Com'è banale il tumore! Si muore per una roba così banale? Sembra il gozzo di un pollo”. Tornato a Roma, mi scrisse che era rimasto colpito “dall'aura, tra religiosa e astratta, che avvolge la sala operatoria e i suoi adepti”. E aggiunse: “Io, forse più realista o materialista, mi sono soffermato sull'odore della carne umana, meno “pura” di quella animale. Com'è tangibile, com'è artigianale e fatta a mano, in fondo, la salvezza dell'uomo!”».
Come vi conosceste?
«Nell'agosto 1970 una signora fu ricoverata nel mio reparto per un trauma toracico addominale, conseguente a una brusca frenata dell'autobus sul quale viaggiava. All'atto delle dimissioni, volle farmi dono di due libri di Parise, Il prete bello e Cara Cina. La dedica recitava: “Al dottor professor Tommaso Tommaseo con cordiale gratitudine. Ida Osvaldo Parise, anche per Goffredo”. Era la mamma. In realtà si chiamava Ida Bertoli, ma aveva usato nome e cognome di Osvaldo Parise, il direttore del Giornale di Vicenza che l'aveva sposata, adottandone il figlio avuto fuori dal matrimonio».
Si sa chi fosse il vero padre di Parise?
«Un medico. Ebbi modo di conoscerlo. Me lo presentò Cesare Greppi, fratello di mia madre, primario dermatologo che dirigeva l'ospedale dell'Asmara».
E così lo scrittore diventò un amico.
«Qualcosa di più. Nel 1976 mi scrisse: “Io sono attaccato alla vostra famiglia, tutta, mi sento al caldo”. Una sera, dopo cena, mia cognata Grazia stava per congedarlo perché doveva allattare il figlio Lorenzo, nato da poco. Parise espresse uno strambo desiderio: “Mi piacerebbe assaggiare di che cosa sa il tuo latte”. Al che mio fratello Giorgio, che era segretario generale della Ciga, la Compagnia italiana grandi alberghi, prese un cucchiaino d'argento, noblesse oblige, e gli porse un sorso strizzato dalla tetta di sua moglie. Lo scrittore reputò che sapesse “di latte, di miele, di margherite piccole o in erba e di persona umana”».
Piuttosto audace, come amico.
«Bisognava prenderlo com'era. Un'anima eretica. Andava e veniva. Aveva preso casa a Salgareda, in una golena del Piave soggetta a inondazioni. S'era fatto aprire una finestrella accanto al letto per osservare le upupe che costruivano il nido. Verso sera capitava a casa nostra. “Ecco Goffredo che si autoinvita a cena”, ordinava di aggiungere un posto a tavola mio padre. Appena mangiato, a volte scompariva senza salutare. Oppure s'intratteneva fino a notte fonda: con una mano prendeva le pillole per il cuore e con l'altra si accendeva le sigarette».
Non soffriva di arteriopatia diffusa?
«Sosteneva che “la malattia bisogna maltrattarla”. E ci riusciva benissimo. Il professor Gallucci dovette impiantargli quattro bypass aortocoronarici. Nel novembre 1981 finì in dialisi. Lo vidi piangere perché il trattamento gli avrebbe impedito per sempre di viaggiare. La mattina, prima di raggiungere il mio reparto, andavo in nefrologia a salutarlo. Un giorno trovai il materasso rivoltato. Mi prese un colpo: credevo che fosse morto durante la notte. Invece, senza dire nulla, era tornato nella sua casa di Roma. Continuò la dialisi nella capitale».
Qual è, professore, il suo atteggiamento verso la malattia?
«La considero un dramma. Parlo di quella grave che si annuncia all'improvviso, con lo stesso fragore che provoca la rottura di un giunto cardanico. Parise temeva invece la vecchiaia e forse per questo ci lasciò a 56 anni. Ma la senilità rappresenta solo un'età, aggettivabile in vari modi: felice, serena, tragica, solitaria. Come la pubertà, scompensata e imperfetta».
E l'atteggiamento verso la morte?
«Gh'ho paura. Spero mi colga nel sonno».
Si ricorda quale fu, da medico, il suo primo impatto con essa?
«In sala anatomica, all'ospedale San Giovanni e Paolo di Venezia. Dovevo compiere esercizi di medicina operatoria sulla salma di un uomo di 60 anni. La pelle era chiazzata di macchie bluastre. In un angolo il preparatore di cadaveri, che noi chiamavamo monatto, sbocconcellava un panino con il salame. “El fassa presto”, bofonchiò».
Qual è il momento peggiore per un chirurgo in sala operatoria?
«L'emergenza arriva quando meno te l'aspetti. Allora l'assistente guarda all'aiuto, l'aiuto guarda al primario ma il primario può chiamare in soccorso solo Dio. Lì viene fuori ciò che hai imparato dal tuo maestro. M'è capitato di dominare un'emorragia dell'aorta appoggiandoci sopra un dito, come avevo visto fare a Valdoni, dopodiché l'aiuto provvedeva al rammendo mentre io tenevo premuto l'indice sul foro».
Le manca l'ospedale?
«Ho la famiglia: mia moglie Noemi, che ho sposato nel 1957 e che conosco da quando aveva 17 anni, tre figli, quattro nipoti. Ho investito su di loro. Mi tengono compagnia. Con la medicina ho chiuso nel 1996. Non visito neppure i parenti. Nemo propheta in patria».


Al malato va sempre detta la verità?
«No, bisogna dirgli ciò che vuol sentirsi dire. Quasi mai la verità. Neppure al paziente più grave va tolta la speranza».
(697. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica