L'Europa boccia la legge 40 «Lede i diritti dei cittadini»

Anche le coppie fertili devono avere accesso alla procreazione assistita e dunque alla possibilità di sottoporre l'embrione alla diagnosi preimpianto per stabilire se è malato o no prima di avviare la gravidanza. Altrimenti, afferma la Corte di Strasburgo, si violano fondamentali diritti umani. La legge 40 che regolamenta le tecniche di fecondazione artificiale torna ancora una volta nell'occhio del ciclone. Varata nel 2004 tra mille polemiche, sottoposta l'anno dopo ad un referendum abrogativo che non raggiunse il quorum e trascinata più volte davanti ai giudici, compresi quelli della Consulta, mantiene, rispetto al più rigido impianto iniziale, il divieto della fecondazione eterologa.
Ora riceve un altro colpo con questa sentenza della Corte europea dei diritti umani che risponde al ricorso di una coppia italiana fertile ma portatrice sana di una malattia, la fibrosi cistica, che può essere trasmessa ai loro figli. La legge 40 prevede che solo le coppie sterili possano avere accesso alla procreazione assistita e dunque alla possibilità di effettuare la diagnosi preimpianto. Si effettua la fecondazione in vitro e, prima di impiantare l'embrione nell'utero, si verifica se ha o no la malattia in questione. Una scelta che i due coniugi, Rosetta Costa e Walter Pavan, vogliono fare dopo aver avuto un primo figlio con la fibrosi cistica nel 2006 e un aborto volontario nel 2010, praticato dopo aver scoperto che il feto era malato con la diagnosi prenatale. Ora la donna non vuole più rischiare un secondo aborto e chiede di poter effettuare lo screening sulla salute dell'embrione prima dell'impianto. Visto il divieto di legge, i coniugi hanno fatto ricorso presso la Corte di Strasburgo che ha dato loro ragione. Perchè? «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata familiare» è scritto nella sentenza, che fa riferimento all'articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani. Quel diritto, dicono a Strasburgo, è violato dalla legge. E c'è già stata un'apertura in questo senso: possono accedere alla diagnosi preimpianto le coppie non sterili ma affette da malattie sessualmente trasmissibili come l'Hiv e l'epatite.
Non solo. Strasburgo rileva anche un'incoerenza tra la legge 40 e la 194, quella che regolamenta l'aborto. Non ha senso vietare la diagnosi sull'embrione quando un'altra legge permette «l'interruzione di gravidanza se il feto risulta afflitto da quella stessa patologia». Dunque ci si trova di fronte a una «ingerenza sproporzionata» nella vita privata di questa coppia, che ha diritto ad un risarcimento di 15.000 euro per danni morali e alla copertura delle spese legali.
Che cosa succederà ora? Probabilmente nulla perché il governo italiano ha tre mesi di tempo per ricorrere alla Grande Camera della Corte europea. E va ricordato che una prima sentenza sempre di questa Corte, che bocciava il divieto dell'eterologa e l'impianto della legge, venne poi ribaltata l'anno successivo, in seguito ad un ricorso presentato anche dall'Austria che in sostanza stabiliva che ogni Paese, su temi così delicati, deve avere libertà di manovra nel definire le leggi. Il ministro della Salute, Renato Balduzzi, aspetta di leggere meglio le motiviazioni della sentenza ma comunque riconosce che «la questione della compatibilità tra la legge 40 e la 194 è un problema già noto».
Molto più accese le reazioni politiche.

Nel Pdl c'è chi, come Maurizio Lupi, critica Strasburgo ed evoca «derive eugenetiche», una vera e propria selezione della razza ma ache chi è d'accordo come Sandro Bondi. E se Emma Bonino, Livia Turco e Anna Finocchiaro, Pd, invitano a cambiare al più presto la legge, Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl, frena: «Se ne parla nella prossima legislatura».

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