La strada per risolvere il problema del ritardo dei pagamenti era già tracciata, ma l'Italia non ha deciso come e quando percorrerla. A dettare la tabella di marcia è la direttiva Tajani, che il governo si è impegnato ad approvare tramite decreto entro il 15 novembre anche per evitare l'apertura di una nuova procedura di infrazione. La norma pensata dal vice presidente della Commissione Ue impone tempi certi agli Stati: i debiti si saldano entro 30 o al massimo 60 giorni in casi eccezionali (le imprese pubbliche e quelle che forniscono assistenza sanitaria).
Per quanto riguarda le transazioni tra aziende, il termine è sempre di 60 giorni, ma le parti possono derogarvi a patto che questo non si traduca in un chiaro abuso a danno di una di queste. Gli imprenditori, nel caso che il saldo ritardi, possono inoltre chiedere il pagamento degli interessi, oltre a un minimo di 40 euro per le spese di recupero: si applica una maggiorazione dell'8% sopra il tasso della Bce, quindi ad oggi il costo arriverebbe all'8,75 per cento.
Nei contratti non si potrammo poi inserire clausole capestro: le amministrazioni pubbliche non avranno più modo di inserire cavilli per abbassare gli interessi di mora. Non tutti i creditori sono infatti oggi trattati alla stessa maniera, ad esempio le normative vigenti in Italia riconoscono alle imprese edili un interesse minimo del 2%, quindi inferiore al tasso di interesse legale.
Senza contare che la commissione Attività produttive della Camera ha approvato un disegno di legge che fissa a 30 giorni il tempo massimo per i pagamenti tra privati. Una strana casualità: si è cominciato a legiferare su ciò che per l'Ue sarebbe facoltativo, ma si è sorvolato su ciò che sarebbe necessario. Forse perché far emergere quei 90-100 miliardi di debiti non onorati aggraverebbe i conti pubblici? Fatto sta (come il Giornale ha documentato) che tra Monti e i ministri Grilli e Passera sulla materia non v'è sintonia. Non sorprende perciò che dei 30 miliardi promessi dal governo non si sia visto ancora granché.
Le premesse erano diverse. L'escutivo a maggio aveva tirato fuori dal cassetto un'azione in quattro punti (corrispondenti ad altrettanti decreti) per sbloccare i crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione. «Fino a 30 miliardi per le aziende», l'annuncio roboante. A cinque mesi dall'avvio delle operazioni il coniglio comparso dal cilindro si è però dissolto nel nulla.
La prima mossa riguardava la certificazione dei crediti. Sembra una parola difficile, ma in realtà si tratta solo di un'attestazione con la quale lo Stato conferma l'esistenza di un debito a fronte di una fattura e si impegna a pagarlo entro una data determinata. Questa mossa avrebbe dovuto «sbloccare» la concessione di finanziamenti bancari tramite la cessione del credito o la compensazione con i debiti tributari per coloro che avessero voluto beneficiarne direttamente con la dichiarazione dei redditi di impresa: a questo scopo si era anche pensato di incrementare di 5 miliardi il fondo di garanzia per le pmi.
Poi, però, ci sono state solo dificoltà, la prima peraltro era già nel testo: le Regioni in dissesto sanitario non avrebbero potuto rilasciare certificazioni in quello specifico settore, che pesa per 37 miliardi su un totale di 90-100 miliardi.
La seconda è giunta con i decreti attuativi, che hanno di fatto creato certificazioni di «serie A» e di «serie B». Le prime contengono il fatidico impegno di pagamento (che consente di ottenere più facilmente le garanzie bancarie), le seconde non ce l'hanno e quindi lasciano al buon cuore degli istituti di credito valutare se fidarsi o meno del cliente. Casualmente le imprese edili (che dallo Stato aspettano circa 20 miliardi) si sono viste inserire nella «fascia B».
Lasciava ben sperare, invece, il protocollo sottoscritto dalle associazioni imprenditoriali e dall'Abi per ottenere lo «sconto» (cioè l'anticipazione delle fatture con o senza la cessione del credito). L'adesione delle singole banche al protocollo, tuttavia, richiede tempo e a oggi non tutte (soprattutto le piccole) lo hanno ancora sottoscritto.
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