Due mesi e mezzo di calvario. Due mesi e mezzo di tensione, di inferno, di delusione, perché al di là di indignate prese di posizione, nulla la politica e il governo hanno fatto perché lo scandalo di un giornalista, il terzo nella storia d'Italia, non dovesse ripetersi. E invece dal 21 settembre, quando il Giornale ha reso pubblico il caso Sallusti, solo polemiche, ipocrisie, e un tentativo di cambiare la legge peggiore della legge stessa.
«Stanno per arrestare il direttore del Giornale», è il titolo di prima pagina del 21 settembre scorso, il giorno d'inizio del calvario di Alessandro Sallusti: condannato a 14 mesi per un articolo non suo. La levata di scudi è immediata. Ordine dei giornalisti e Fnsi lanciano un appello, la politica si dice indignata. Il presidente del Senato Renato Schifani, chiama Sallusti, il presidente dei deputati Pdl, Fabrizio Cicchitto, definisce «lunare» la sola ipotesi che il direttore di un giornale possa finire in galera. Ma di «lunare» c'è solo la motivazione di quella sentenza d'appello che apre a Alessandro Sallusti le porte della galera. Sono sette pagine, stringate. In cui in sintesi si dice Sallusti va mandato in carcere perché è un pericolo sociale. Ed è un pericolo sociale perché scrive, e dunque può reiterare il reato, la diffamazione. La linea di Sallusti è nitida, sin dall'inizio: «La classe dei magistrati che ha partorito questo obbrobrio abbia il coraggio di correggersi o l'impudenza di andare fino in fondo. Non ho paura. Io sono un nulla rispetto al problema in questione», scrive il direttore il 23 settembre. E tre giorni dopo l'obbrobrio si fa sentenza, nonostante il coro di «no» al carcere per un giornalista, compresi il ministro di Giustizia, Paola Severino, e persino il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il 26 settembre, alle 17 e 50, le agenzie di stampa battono la notizia della vergogna: la Cassazione ha confermato la condanna a 14 mesi.
Ore drammatiche. Sallusti incontra i suoi giornalisti. Annuncia di voler lasciare l'incarico di direttore. Scrive, sul Giornale, il 27 settembre: «Non voglio concedere nessuna via d'uscita a chi ha partecipato a questa porcata», e quindi niente trattative per la remissione di querela, niente richiesta di grazia al presidente Napolitano, e niente pene alternative. Le dimissioni da direttore vengono respinte dall'editore, Paolo Berlusconi. Sallusti torna al suo posto. E scatta il doppio conto alla rovescia: quello personale del direttore, 30 giorni di sospensione della pena prima che diventi esecutiva; e quello pubblico della politica, che si impegna a modificare la legge. Una farsa. Alla Camera, l'autore dell'articolo per il quale Sallusti va in galera, l'onorevole Renato Farina, confessa: «Dreyfus sono io, quel pezzo è mio». Tempo scaduto. Palazzo Madama comincia a muoversi per cambiare la legge ai primi di ottobre. In Commissione Giustizia sfila, attraverso gli emendamenti, l'odio della casta bacchettata dal Giornale per il suo direttore e per i giornalisti tutti. Si inventano le punizioni più balzane: multe esorbitanti, persino la radiazione per il giornalista condannato, quasi peggio del carcere.
«La corsa a salvarmi dalla galera per un reato che non ho commesso si sta trasformando in una ipocrita bagarre», chiosa Sallusti già il 7 ottobre. Una lucidità profetica. Il primo ddl naufraga a metà ottobre, i tempi si allungano. «È successo quello che immaginavo, questi politici sono ipocriti e codardi», commenta Sallusti. Il direttore invoca la Procura di notificargli l'ordine di esecuzione della pena, di interrompere lo stillicidio di incertezza. Il Senato si rimette in moto. Ma la riforma non ha futuro. Con voto segreto passa un emendamento della Lega (appoggiato dall'Api di Rutelli) che ripristina il carcere per i giornalisti. «Vi dico che mi fate ridere, fate pena», scrive Sallusti nel suo fondo, il 14 novembre. Si emenda ancora, si esclude il carcere per i direttori ma non per i giornalisti. Il testo muore al Senato, il 26 novembre, col voto segreto. «Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur», mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata, diceva Tito Livio. E Sallusti è come Sagunto. Arriva l'ordine di carcerazione. Il procuratore di Milano, Bruti Liberati chiede i domiciliari. «Dovrei ringraziarlo ma non lo faccio, il solo dubbio che qualcuno mi abbia aperto una corsia preferenziale mi farebbe orrore», scrive Sallusti.
di Mariateresa Conti
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