Si apprende che negli Stati Uniti è molto attivo un laboratorio che studia le cause più diffuse della rottura di un matrimonio. Il suo nome è Gottman Institute. Stando al racconto di Vittorio Zucconi pubblicato ieri sulla Repubblica, i ricercatori che vi lavorano da una quarantina di anni sono in grado, dall'esame di certe reazioni di una coppia, di prevedere come andrà a finire, e in quanto tempo, la sua storia. Ci azzeccano quasi sempre. In sostanza gli individui si dividono in due categorie: i master e i disaster. I primi sono capaci di controllare la situazione e di resistere alla vita a due anche per trent'anni, e oltre; i secondi si lasciano trasportare di qua e di là dall'emotività e sono destinati a divorziare entro sette o otto anni dalle nozze.
Ho sintetizzato al massimo la questione per non annoiare il lettore, già stupito, come me, che gli scienziati americani siano pervenuti alla scoperta dell'acqua calda. Noi italianucci, pur schiavi di una (...)
(...) tradizione mandolinara che ci porta al sentimentalismo, e perfino al familismo, non abbiamo bisogno di scienziati per sapere che «dopo i confetti escono i difetti» e che sposarsi è un piacere che si consuma in fretta. Dopodiché, per non sfasciare tutto e non andare incontro a un disastro familiare ed economico, occorrono dosi massicce di pazienza e ipocrisia.
È inutile tentare di analizzare i motivi che inducono lui e lei a non sopportarsi più e ad aspirare a una liberatoria separazione, che poi liberatoria non è in mancanza di mezzi per finanziarla. Nel nostro piccolo siamo consapevoli che la principale causa di divorzio è il matrimonio, il quale contiene in sé una serie di veleni - dovuti all'abitudine, alla routine, al logoramento della relazione e della libido - tali da uccidere la voglia di vivere sotto lo stesso tetto, di dormire nello stesso letto, di trascorrere insieme le giornate, comprese quelle di vacanza, forse le più brutte per coniugi che abbiano superato la fase di rodaggio, in altre epoche definita luna di miele. Già, esaurito il miele, resta il fiele. A meno che marito e moglie non siano tanto maturi da essere edotti che stare l'uno accanto all'altra sia un esercizio arduo se non alimentato dalla tolleranza, nel qual caso gli aspetti negativi sono compensati da quelli positivi.
In effetti tornare a casa la sera e trovare una persona cui si vuol bene e che ti vuol bene è un conforto per il corpo e per lo spirito. Se la passione, col trascorrere dei mesi e degli anni, si trasforma in un legame forte e di mutuo soccorso, il matrimonio non è un peso insostenibile, ma una specie di coperta di Linus, calda e protettiva, dolce e consolatrice. Gli uomini e le donne ai quali riesce il miracolo di campare in simbiosi, di spartirsi i compiti nell'ambito domestico, di darsi una mano ad affrontare le grane quotidiane provocate dalla prole, dai problemi tipici della nostra epoca (mutuo, affitto, spese condominiali, eccetera) e dagli ostacoli sparsi sul cammino di ciascuno, raramente cederanno alla tentazione di disunirsi per inseguire chimere.
Chi regge alle fatiche della convivenza è un'eccezione? Quando non esisteva l'istituto del divorzio, era fatale che la maggioranza degli italiani si rassegnasse a considerare il connubio una scelta definitiva. Oggi non è più così. Chi pronuncia il fatidico «sì» davanti al prete o al sindaco ha un retropensiero: se va male, amen, così come abbiamo fatto le carte per le nozze, faremo quelle per la separazione. L'idea che esista una sorta di salvagente deresponsabilizza gli sposi e li rende vulnerabili: ci vuol poco a far sì che si stanchino presto del tran tran a due e corrano verso emozioni extramatrimoniali. Tanto è vero che allorché due coniugi entrano in crisi, di norma la colpa è di tutti e tre, se non di tutti e quattro. Il calo dell'attrazione fisica è fisiologico nella coppia per ragioni che non meritano neanche di essere ricordate se non sommariamente: la convivenza spegne il desiderio e lo commuta spesso in repulsione, specialmente se lui o lei (o entrambi) si trascurano fino a essere fisicamente sgradevoli. Ciò che invece non succede nell'eventualità di un incontro extraconiugale che risvegli i sensi, incentivi la cura dell'aspetto e susciti fantasie eccitanti.
Dal momento in cui il matrimonio non è più stato indissolubile, gli sposalizi sono diminuiti drasticamente. I giovani preferiscono sperimentare: si mettono insieme e provano. Se va male, si salutano. Non senza traumi. Ma, in assenza di «contratto», essi non si fanno scrupoli a unirsi e a disunirsi. Il cliché è noto: prima la passione, poi la delusione da consunzione. Il fatto stesso che nella coppia lui sia un compagno, e non un marito, e lei una compagna, non una moglie, ha inciso nel costume. Le parole riflettono la realtà più attuale.
Lo stesso concetto di famiglia si è inaridito. La gente si sposa, divorzia, si risposa, figli di qua e figli di là in un guazzabuglio che scolorisce affetti e obblighi e confonde i ruoli genitoriali. Quello che sorprende è l'ingenuità di chi, volendosi sganciare dal nucleo familiare originario, si fa in quattro per fuggire da una gabbia salvo costruirsene attorno una uguale a quella da cui si è affrancato. Cosicché diventa prigioniero di due gabbie identiche.
C'è una sola maniera per non essere infelici in materia di sentimenti, anzi, due maniere: non pretendere di essere felici accanto a qualcuno o accontentarsi dello zero virgola che ti garantisce la solitudine. Tertium: raccogliere in silenzio ciò che abbiamo seminato, incolpando noi stessi delle nostre topiche e non chi ci sta vicino. Il quale non è migliore di noi, ma nemmeno peggiore.
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