diPer capire come cadrà Bersani, può essere utile ricordare come ha costruito e, nell'ultimo anno, rafforzato la sua leadership nel Partito democratico. Dopo lo choc delle dimissioni di Veltroni (consigliate da Bersani al fondatore del Pd, come quest'ultimo ha maliziosamente ricordato in questi giorni) e dopo il breve interregno di Franceschini, l'arrivo dell'ex ministro delle «lenzuolate» fu accolto dal corpaccione del partito come un rassicurante ritorno alla tradizione. E su questa linea - la famigerata linea dell'«usato sicuro» - Bersani ha costruito il suo consenso e il suo potere, cooptando in segreteria i portaborse di tutti i capicorrente - destinati poi a emanciparsi sotto il nome collettivo di «Giovani Turchi» - così da avviare quel «rinnovamento nella continuità» che fu uno dei capisaldi della governance del vecchio Pci.
L'irruzione di Matteo Renzi sulla scena non ha cambiato né la linea né i metodi del segretario: semmai, Bersani ha approfittato della richiesta montante di novità per allontanare dal Parlamento figure storiche come D'Alema e Veltroni e per rafforzare la sua presa sull'apparato. Ma in cambio ha promesso le poltrone che era in cuor suo già sicuro di vincere: a D'Alema la Farnesina o la nomina a Commissario europeo, a Veltroni il Viminale come compensazione per la mancata (ancorché ipotetica) presidenza della Camera, alla Bindi la vicepresidenza del Consiglio, a Franceschini la segreteria del partito o la presidenza della Camera. È grazie a questo patto di potere - simboleggiato dal foglietto anonimo reso noto dal Foglio la scorsa estate, dove molte caselle del futuro governo erano già state assegnate - che la segreteria di Bersani ha retto fino alle elezioni. Convinti di vincere, oligarchi e capicorrente hanno sostenuto il segretario, nonostante perplessità e dubbi sempre più profondi, con una compattezza mai vista prima nel centrosinistra.
Ma Bersani non ha vinto. E anzi ha fatto di peggio: intestardendosi nell'impossibile impresa di farsi votare dai grillini, ha avviato a sua volta una politica grillista. Franceschini e Finocchiaro, che secondo i patti avrebbero dovuto salire sullo scranno più alto di Montecitorio e di palazzo Madama, sono stati eliminati in una notte per far posto a due «volti nuovi» - Boldrini e Grasso - la cui caratteristica principale è non aver mai fatto politica in vita loro. I due trombati hanno fatto buon viso a cattivo gioco, ma il giorno stesso sono passati dalla parte dei nemici di Bersani. Il quale ha insistito sulla linea dell'umiliazione del gruppo dirigente imponendo il fedelissimo Speranza - anche lui mai entrato prima in Parlamento - come capogruppo alla Camera. Un terzo dei deputati s'è rifiutato di votarlo, e conta i giorni che mancano alla sua sostituzione. E a quella del segretario. Gli oligarchi, infatti, hanno capito due cose. La prima è che l'intero partito è ormai ostaggio (come ha detto Rosy Bindi nell'intervista poi smentita al Secolo XIX) dell'ottusa determinazione di un uomo a prendersi ciò che nessuno gli darà mai, e che gli elettori gli hanno negato. Ma la seconda cosa che i capicorrente hanno capito è ancora più grave (per loro): se pure Bersani dovesse riuscire ad insediarsi a palazzo Chigi, non li porterà certo con sé. Se mai dovesse formare un governo, lo riempirebbe di Grassi e di Boldrine e per la vecchia guardia non ci sarebbe neanche uno strapuntino. Quanto al Quirinale, meglio non parlarne neppure.
Combattere una battaglia già perduta può essere onorevole, ma combatterla sapendo che in ogni caso non ci sarà né un premio né una ricompensa è da idioti. E così sono cominciate le grandi manovre per isolare Bersani nell'angolo in cui, peraltro, s'è cacciato da solo. Da Veltroni alla Bindi, da Letta a D'Alema, non c'è leader del Pd che non lavori in queste ore per affossare il segretario. E la strada maestra è quella indicata da Franceschini, ex capogruppo e mancato presidente della Camera, nell'intervista al Corriere: il «governo di transizione» d'intesa con Monti e il Pdl. A questo progetto lavorano ormai esplicitamente tutti i capicorrente, molti dei quali hanno un rapporto diretto con il Pdl che prescinde da quello «ufficiale» di Errani e Migliavacca.
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