Economia

Con un sorso di birra ci ubriacano di tasse

Associazione sul piede di guerra: l'aumento dell'accise del 33% colpisce 35 milioni di italiani. Braccati pure in pizzeria

Con un sorso di birra ci ubriacano di tasse

Traballa pesantemente anche l'ultimo sfizio degli italiani: pizzaebirra, neologismo composto che significa serata di consolazione al tempo della crisi. Anche questo, sotto attacco dalle dannate accise (che aumentano del 33%). La gente comune si è sempre chiesta che cosa diavolo stia a significare questo odioso istituto, perché mai nessuno abbia il coraggio di chiamare volgarmente tassa anche questo ubiquo prelievo alla fonte. L'accisa ormai sta ovunque: credevamo fosse esclusiva della benzina e del gasolio, come una specie di costosissimo additivo al momento di pompare carburanti, ma ora scopriamo che si piazza sui più disparati consumi. A detta dell'Associazione birrai, il repellente balzello rischia ora seriamente di attentare agli equilibri di un settore per sé stesso molto tedesco, ma negli ultimi anni sempre più amabilmente italiano, come dimostrano il proliferare dei birrai artigiani e la nuova abitudine di farsi il boccale al pub. Adesso basta, grida Alberto Frausin, presidente di Assobirra. I dati che cita sono ad alta gradazione: queste accise sono aumentate dal 2004 ad oggi del 114 per cento. Praticamente, siamo ormai al punto che quando ci prendiamo la birretta un sorso su due lo destiniamo al fisco (è noto il perfido meccanismo: i produttori versano le accise, ma le paghiamo noi). Sotto accusa l'ultima decisione del governo Letta: l'ennesimo aumento a copertura del ddl per la scuola. «Siamo felici che si siano trovate idee e strategie per rilanciare la scuola nel nostro Paese - commenta tra il serio e il sarcastico il presidente - ma siamo preoccupati perché il nuovo aumento rischia di mettere in seria difficoltà un comparto già abbastanza sofferente: nel primo semestre 2013, le vendite sono scese del 3 per cento».
La sottolineatura struggente riguarda invece l'insensibile accanimento del governo nei confronti dell'ultimo baluardo di felicità rimasto alla popolazione negletta, questa pizzaebirra che con i suoi dieci-quindici euro fungeva da ottimo metadone per gli italiani in crisi di astinenza della loro amata roba pesante, ristoranti di lusso e trattorie d'alta scuola. A questo punto, anche la birra rischia di passare la linea che separa il possibile dal proibito, diventando a sua volta un mezzo lusso, sul genere Montalcino o giù di lì.
Catastrofismo lobbista? Vittimismo di categoria? È un fatto che finanziare il rilancio, dalla scuola alle grandi opere, sia un problema epocale: con i debiti che ci ritroviamo, non abbiamo margini neppure per cambiare un tombino. Bisogna lavorare dunque di fantasia, andando a rastrellare qualche euro là dove si pensa non si intacchino i bisogni fondamentali e i beni di prima necessità. Nel caso della birra il dilemma è arduo. Se guardiamo certi nostri ragazzini con lo sguardo a palla e il ragionare sconnesso alle nove di sera, dopo la quarta bionda, l'idea di impedirgliene una quinta lavorando sul prezzo può pure diventare una manovra di salute pubblica. Se però osserviamo la tenera famiglia monoreddito che un sabato al mese si concede la margherita e la birra al «Piccolo mare», allora davvero viene da pensare che la spumosa bevanda faccia parte di un paniere e di un vissuto assolutamente intangibili.
Non è facile decidere. Ad ogni modo, non sembrano restare molti margini: forse non ci ubriacheremo più di birra, certo ci ubriacheremo di tasse.

Quanto meno, vediamo una volta per tutte di rendere più chiaro e lineare almeno il linguaggio, abolendo il subdolo vocabolo carogna: anche solo per assonanza fonetica, l'accisa ispira subito una sincera reazione popolare, accitua.

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