MilanoGiuseppe Filianoti è il tenore italiano più richiesto all'estero. Bella voce, bella testa pensante, spirito analitico, incline allo scavo: di sé e dei personaggi. Ha solo 34 anni e proviene da una regione che non è certo la terra del canto, la Calabria. A scoprirlo, nel 1997, fu Riccardo Muti che lo volle subito nell'Accademia del Teatro alla Scala. L'anno dopo, Filianoti già debuttava a Bergamo, diretto da Daniele Gatti, quindi iniziava il giro dei teatri di casa nostra e poi via, all'estero. Ora ha contratti a Chicago e al Met di New York fino al 2014, canta nei teatri di punta. All'appello mancava solo l'Opéra Bastille di Parigi, che raggiungerà nel 2010. Filianoti veste il ruolo del titolo di Don Carlo, l'opera di Giuseppe Verdi che apre la stagione della Scala, il 7 dicembre. E il suo secondo SantAmbrogio.
Come sarà il suo Don Carlo?
«Un uomo che non conosce vie di mezzo, esplode e implode, passa dall'eccitazione all'estasi. È un po folle, incostante, avido daffetti, forse perché non fu amato da fanciullo. È un eroe sottomesso al destino».
Lei crede nel destino?
«Sento che cè una forza a guidarci, non posso credere che certi fatti siano il frutto di coincidenze».
Con lei il destino è generoso. In compenso, non la inquieta tanto successo a 34 anni?
«Non ci penso, sono concentrato su questa professione che amo con tutto me stesso e che ritengo di affrontare con buon senso».
Un antidivo, infatti. Il classico tenore che non pianterebbe in asso, per stizza, il pubblico nel bel mezzo dello spettacolo, per esempio.
«Il divismo ha fatto la sua stagione, non ci crede più nessuno».
Eppure ci sono artisti costruiti a tavolino, da case discografiche, privi di consistenza artistica eppure divi.
«Però in Italia non cantano. E non lo fanno perché verrebbero stroncati. Il pubblico italiano è esigente. Loro sono entrati nel cosiddetto giro americano. Che vuol dire: agente statunitense, immagine, agganci nelle case discografiche. Lancio».
Una strada che lei non ha percorso. Perché?
«Avrei potuto farlo, ma i miei agenti, che considero una famiglia, mi dissero: Prima di andare in America, affermati in Italia. Non bruciarti».
Al di là della gloria, dove si guadagna di più, al di qua o al di là dell'Oceano?
«In Europa, e la Spagna è particolarmente generosa».
Nella sua agenda ci sono solo teatri con blasone. Poi spunta il Cilea di Reggio Calabria...
«Amo la Calabria, la mia città, il mare. Quando posso vi ritorno e cerco di dare un contributo. Poi, noi uomini del Sud, abbiamo un attaccamento viscerale alla nostra terra».
Una voce come la sua è un dono, però non semplice da gestire.
«Devi saper fare le giuste scelte di repertorio, rinunciare alle proposte allettanti ma inopportune in un dato momento. E poi, guai a farsi abbagliare dal successo. Quando credi dessere arrivato, è finita. Infine, la carriera non si costruisce da soli».
E chi contribuisce?
«Una squadra. L'insegnante, l'agente, la famiglia. Mia moglie, pianista, è la mia spalla, una consigliera discreta».
«Vorrei potermi leggere l'anima», disse un giorno.
«Questo mestiere aiuta a conoscerti. Il palcoscenico ti denuda, se hai una maschera, se non sei leale con te stesso, non puoi reggere la scena, vai in crisi. E questo implica una continua ricerca di te stesso. E tanta lealtà».
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