Io che l’ho conosciuto vi dico: il Basaglia della Tv è credibile

Era uno psichiatra surrealista, come l’ha interpretato Gifuni Lo danneggiarono gli eccessi ideologici del Pci e i suoi allievi

Io che l’ho conosciuto vi dico: il Basaglia della Tv è credibile

di Alessandro Meluzzi

È molto difficile descrivere un dolore che evolve perdendo di fissità.
La storia dei pazienti di Gorizia della fiction C’era una volta la città dei matti, di Marco Turco, poteva cadere nell’elegia, nell’agiografia o nel grottesco. Nonostante i rischi e qualche enfasi di troppo, il risultato scenico e narrativo mi pare accettabile, anche come ricostruzione di un ambiente in cui nell’Italia anni ’60 i dottori borghesi sono correttamente progressisti e gli infermieri sorveglianti un po’ fascisti.
Il manicomio era il contenitore cieco e sordo, indifferenziato e acritico, di realtà immensamente diverse tra loro che, una volta incapsulate in questa dimensione, le massifica, le annienta, le livella, attraverso l’oppressione del corpo.

Prima del 1968 nei manicomi ci stavano tutti: gli schizofrenici, i depressi, gli etilisti, i disabili, i malati mentali, come pure i semplici «sfigati». Il manicomio era una specie di carcere, si definiva con meccanismi giudiziari e soprattutto se ne poteva uscire solo con meccanismi paragiudiziari, poiché il medico che accertava la dimissione si assumeva personalmente la responsabilità di ciò che il «matto» avrebbe fatto una volta uscito. Questa è la ragione per cui, una volta entrato in manicomio, nessuno ne usciva più.
Questo aspetto emerge in maniera chiara, e secondo me non scontata, nella fiction trasmessa in questi giorni da Raiuno. Chi ha conosciuto come me il manicomio, ha visto che la descrizione non ha eccessi né di tinte né di orrori anche nei dettagli scenici delle forme di contenzione. Eppure il manicomio poteva diventare anche il luogo di una misteriosa, febbricitante poesia, luogo di tutto o di niente, luogo a volte anche accogliente, come nei romanzi di Tobino e delle sue Libere donne di Magliano.

Franco Basaglia invece, psichiatra rivoluzionario e intellettuale surrealista, fu uno dei padri dell’antipsichiatria, il promotore della famosa legge 180 che solo nel 1978 sancì la fine dell’istituzione manicomiale.

Alla follia egli riconobbe i due volti: il primo è quello che si genera in qualsiasi società, latitudine, condizione economica, appartenenza, quello della psicosi; il secondo era quello generato dall’istituzione psichiatrica. La de-istituzionalizzazione avrebbe cancellato il secondo volto della follia. Basaglia soleva dire che per lui tra la malattia e la persona il centro di interesse non era la malattia, bensì la persona con il suo destino.

L’amore per l’uomo era certamente ciò in cui Franco Basaglia eccelleva. Un amore diffuso e indistinto che credo abbia pagato anche con la sua consunzione esistenziale e personale. La sua parabola emotiva è forse l’aspetto più interessante del film televisivo appena trasmesso. Convincente la recitazione del protagonista, che dà di Basaglia il ritratto di un dandy profetico piuttosto che di un rivoluzionario blindato. Anche l’affresco delle facce, compresa una Puccini sideralmente lontana da Rivombrosa, ricorda non solo le maschere lombrosiane delle stampe di Hogarth, bensì tanti sguardi che hanno abitato luoghi di dolori polverizzati.

Da Gorizia in avanti il destino di questo straordinario sperimentatore e tragico poeta della liberazione non può non saldarsi in un’alleanza un po’ naturale, un po’ strumentale, con l’onda montante del Pci e della nuova sinistra, con gli automatismi burocratico-militanti. Anche con qualche distorsione grave che ne derivò, come la sua firma, apposta insieme con quelle di altri intellettuali tuttora in circolazione, nell’appello contro il commissario Calabresi nel 1973.

La mitica legge 180 è la conseguenza di quel periodo. Chiude, sull’onda di un referendum radicale, i nuovi ingressi negli ospedali psichiatrici, che rimarranno peraltro aperti e funzionanti per molto tempo, senza definire metodi e caratteristiche delle nuove strutture intermedie. Strutture territoriali e residenziali piccole e umane, che sono via via nate riempiendo disomogeneamente, regione per regione, un vuoto drammatico di risposte ai bisogni dei pazienti e delle famiglie. Spesso lasciate abbandonate a se stesse, nel nome della celebrazione di idee considerate più importanti dei fatti. Fatti che, come diceva Lenin, hanno comunque la testa dura.
Soprattutto in quella fase in cui gli epigoni sempre più mediocri dei maestri imprimevano allo svuotamento forzato degli ospedali psichiatrici un ritmo più ideologico che umanitario. Ma in quel tempo Basaglia era già morto, egli stesso in un certo senso vittima di una rivoluzione che, come tutti i veri cambiamenti profondi, ha attimi di entusiasmo e tragedie, liberazioni e vittime, profeti e mediocri e carrieristici esecutori. Basaglia non fu sempre apprezzato e compreso neppure dai suoi compagni di strada.
Lo ricordo stupito nelle assemblee del 1977 tra indiani metropolitani e rivoluzionari che più rivoluzionari non si può, di fronte a contestazioni che distruggevano e negavano chiunque, in una fuga di scavalcamenti a sinistra.

E lo ricordo pochi mesi prima di morire a casa di Piera Piatti e Giulio Bollati, il direttore editoriale della Einaudi, editore dell’Istituzione negata, mentre cercava di riposarsi un po' su un divano, ripeteva angosciato in un incubo come se si trattasse di un tragico fantasma shakespeariano: «I tecnici! I tecnici!». Chissà che si trattasse dei colleghi, che in fondo lo avevano più osannato che compreso, dei pianificatori assessorici e ministeriali dei piani quinquennali delle programmazioni, o dei tecnici della rivoluzione dei partiti marxisti-leninisti di ogni latitudine.

Come tutti i personaggi autenticamente geniali, divide più che unire, evoca più emozioni che ragioni. Ma certo è che all’ultimo congresso mondiale di psichiatria, in un simposio di storia della clinica mondiale, solo due psichiatri italiani del ’900 sono stati citati: Franco Basaglia e Ugo Cerletti, l’inventore dell’elettroshock nella Roma degli anni ’30, personaggio che meriterebbe anch’egli una fiction.

Strano contrappasso di un Paese che tende a mediare e neutralizzare qualsiasi cosa o a esprimere le punte estreme e laceranti di ogni contraddizione.

I due più grandi esperimenti italiani sul rapporto tra mente e cervello: quello di Cerletti ispirato ai maiali uccisi con la corrente nel macello del Testaccio e quello di Basaglia dagli effetti delle segregazioni e delle macellerie sociali di ogni tempo.

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