La politica della mano tesa di Obama verso l'Iran sta per incontrare la sua Waterloo: il 7 gennaio è attesa la risposta finale degli ayatollah alla proposta di compromesso dei cosiddetti 5+1 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania), che consentirebbe alla Repubblica islamica di proseguire nello sviluppo del nucleare civile, ma le impedirebbe di costruire la bomba. Purtroppo, è un'attesa priva di suspense, perché tutti sanno già che da Teheran arriverà un no, o al massimo l'ennesima replica ambigua, destinata soltanto a guadagnare tempo ed evitare quel quarto round di sanzioni cui punta la diplomazia americana. In realtà, si tratterebbe di una mossa quasi superflua, perché all'Onu è venuta a crearsi una situazione che renderà quasi impossibile il passaggio di una nuova risoluzione contro l'Iran e quindi un aumento della pressione internazionale sul regime.
Con il 1 gennaio, infatti, la composizione del Consiglio, in cui il multilateralismo di Obama continua a riporre le sue speranze, si è modificata in senso nettamente sfavorevole agli Stati Uniti. Anzitutto la presidenza di turno è passata alla Cina, il membro permanente che da sempre è più riluttante a un nuovo giro di vite contro Teheran, con cui intrattiene stretti rapporti politici, economici e perfino militari e di cui è sempre stata la principale paladina. Pur senza esporsi in maniera plateale, i cinesi sono sempre riusciti a evitare ai loro protetti forme di boicottaggio che li costringessero a cambiare rotta e - ora che per un mese avranno in mano il pallino - potranno esercitare la loro azione bloccante con anche maggiore efficacia.
Ma non basta. Una delle cinque «new entries» del 2010 è - in rappresentanza del mondo arabo - quel Libano che, nei piani americani, avrebbe dovuto diventare un buon alleato dell'Occidente nello scacchiere mediorientale ma che invece sta entrando nell'orbita dell'asse Damasco-Teheran. Il suo giovane primo ministro Saad el Hariri (figlio di quell'Hariri che, per avere cercato di affrancarsi dalla dominazione siriana fu fatto saltare per aria dai servizi segreti di Assad) ha infatti prima formato un governo di coalizione con l'Hezbollah, longa manus dell'Iran nel suo Paese e unico partito autorizzato a mantenere le sue milizie, e poi si è recato in pompa magna a Damasco per fare pace con gli assassini di suo padre. Anche se non ha ottenuto la poltrona degli Esteri l'Hezbollah, protagonista della ultima guerra contro Israele e organizzazione classificata come «terrorista» sia dagli Stati Uniti, sia dall'Unione Europea, avrà pertanto accesso indiretto al Cds, dove potrà rappresentare gli interessi di Teheran. Quasi per sanzionare anche formalmente questa svolta, lo stesso Hariri ha ricevuto nei giorni scorsi a Beirut il ministro degli Esteri iraniano Mottaki, con il quale sembra avere concordato un piano di azione.
Né le cattive notizie si fermano qui. Nel nuovo Consiglio sono entrati a far parte altri due Paesi membri della Conferenza dei Paesi islamici, la Nigeria e il Gabon, che il 18 dicembre scorso all'Assemblea generale hanno votato contro una risoluzione di condanna delle violazioni dei diritti umani da parte degli ayatollah, e il Brasile, il cui presidente Lula ha appena accolto, con tutti gli onori e stridenti proclami antiamericani, il suo collega iraniano Ahmadinejad. La loro voce si unirà a quella della Turchia, alleata dell'America ma da sempre contraria a nuove sanzioni contro la vicina Repubblica islamica, e a quella dell'Uganda, peraltro forse più suscettibile alle pressioni occidentali.Si sono pertanto creato le condizioni in cui una risoluzione veramente incisiva, come il divieto di vendere all'Iran la benzina di cui ha bisogno, ma che non riesce a raffinare in casa, potrebbe essere bocciata senza che la Cina (o la Russia, in questo momento in posizione più ambigua) abbiano bisogno di ricorrere al diritto di veto.
Quali carte rimarrebbero, allora, in mano ad Obama per fermare la corsa di Teheran verso la bomba? Praticamente nessuna, se non si rassegnerà a capire che, con le buone, da certi regimi non si ottiene nulla e si convincerà che l'unica speranza risiede in un successo del movimento riformista che negli ultimi giorni ha scosso dalle fondamenta il dominio dei falchi Ahmadinejad e Khanenei, ma che senza un fermo sostegno esterno rischia di essere schiacciato.
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