Jaki conquista la scena con la sua nuova "italianità"

Il nipote dell'Avvocato appare meno impacciato delle prime uscite e più a suo agio come leader

Jaki conquista la scena con la sua nuova "italianità"

Che il gruppo Agnelli sia guida­to da un trentaquattrenne nato a New York da madre italiana e padre francese è un fatto che investe la cul­tura di tutto il gruppo. John Elkann, che ieri ha condotto la sua prima as­semblea di Exor - la holding del gruppo- nella doppia veste di presi­dente e di amministratore delega­to, esprime i valori della sua genera­zione e dell’internazionalità di cui è figlio. Con maturità, senso di re­sponsabilità, pensiero: ma che il gruppo sia condotto da un giovane, e non da un anziano, lo si avverte. Una storia già vista in casa Agnelli nella quale, come si è sempre nota­to, è la seconda volta che il testimo­ne passa da nonno a nipote.

John «Jaky» Elkann, che quando mosse i suoi primi passi era com­prensibilmente impacciato, oggi appare più maturo e adatto al ruo­lo: e proprio ora si trova di fronte a temi straordinari, in questa fase prossima alla fusione di Fiat e Chry­sler; il suo credo non è conservativo ma guarda ai fatti senza le simbolo­gie che appartengono ai più vecchi. Dove si farà l’assemblea? Non im­porta, è un semplice «valore simbo­lico». Dove si prenderanno le deci­sioni? Non importa, quello che con­ta è che il gruppo sia forte e presen­te sui mercati. Contano gli investi­menti, l’occupazione, il lavoro. Egli dà anche la sua definizione del ruo­lo di un azionista responsabile: cre­are i presupposti per fare il bene del­la società. Parmalat passerà ai fran­cesi di Lactalis? Ottima opportuni­tà per Parmalat, che in un grande gruppo potrà crescere più rapida­mente. Bulgari è finita nel gruppo Lvmh? Elkann è certo che avrà gran­de sviluppo e che la famiglia Bulga­ri ha preso la decisione giusta.

E gli Agnelli? Quale sarà il loro fu­turo nella Fiat integrata con Chry­sler? Non vi è dubbio che il loro capi­tale risulterà diluito. A quanto? «Prematuro fare calcoli, troppe le variabili». Ma- sottolinea il giovane numero uno della famiglia e del gruppo, sgomberando il campo da equivoci - «resteremo l’azionista più importante». Era necessario pensare alla fusione Fiat Chrysler? «Come tutte le organizzazioni, me­glio semplificare e questa è una grande opportunità per costruire in­sieme un grande gruppo, che rad­doppia le sue dimensioni». Gruppo che, ha aggiunto, si chiamerà Fiat.

Aleggia sempre, nei discorsi, quel concetto di «italianità» tanto sensi­bile e, al tempo stesso, tanto equivo­co. Un’azienda rispecchia una na­zionalità o un’altra a seconda di do­ve fabbrica i suoi prodotti? No: «Il nostro più grande stabilimento è in Brasile, ma la Fiat non è brasilia­na ». Un’azienda porta la bandiera del Paese nel quale prende le deci­sioni? No: «Le decisioni vengono prese in base al mercato. Un’azien­da è di dov’è il mercato ». Cita esem­pi di grandi multinazionali che han­no direzioni in diverse città nel mondo, altre con i manager itine­ranti, tre mesi qua, tre mesi là. La Fiat ha già previsto riunioni del pro­prio consiglio di amministrazione in luglio in Brasile e in ottobre negli Stati Uniti.

Il principio è quello di «valorizza­re», per il bene della società. Exor vuole valorizzare, per esempio, an­che Alpitour, ma intende persegui­re questo scopo vendendola a qual­cuno che sappia meglio sviluppar­la. «Non è il nostro mestiere». Sono già cinque le offerte, la chiusura è prevista per fine anno.

Insomma, il credo di questo giovane imprendi­tore- manager appare molto laico, privo di simbologie e di pudori: in tempi di globalizzazione la naziona­lità dei capitali non conta, come non contano sedi e bandiere; conta­no il mercato, il successo dei prodot­ti, l’occupazione, la soddisfazione dei consumatori.

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