John McLaughlin, un «Aperitivo» all’indiana

John McLaughlin, un «Aperitivo» all’indiana

Franco Fayenz

John McLaughlin, chitarrista, pianista, tastierista e compositore, classe 1942, non è americano come molti credono, bensì inglese dello Yorkshire, e in patria trascorse gli anni formativi. È una peculiarità che ha molta importanza, perché - lo dice lui - è da l0 che gli viene l’attitudine a riflettere, cercare, guardarsi intorno, fare le esperienze più diverse.
A questo illustre musicista Aperitivo in Concerto affida la chiusura della stagione 2005-2006 (Teatro Manzoni, domani sera alle 21) nella fase in cui McLaughlin accentua il suo vivo interesse per la musica indiana con una nuova edizione dello storico gruppo Shakti. Adesso ne fanno parte Zakir Hussain tabla, Shankar Mahadevan voce, Shrinivas mandolino e Selvaganesh polistrumentista, esperto di numerosi attrezzi orientali.
McLaughlin approda negli Stati Uniti nel 1969 insieme a un altro giovane inglese, il contrabbassista Dave Holland. È il momento in cui Miles Davis medita la svolta elettrica e deve quindi cambiare la fisionomia ritmica del suo gruppo. Sui due virtuosi ha posto gli occhi durante una tournée in Inghilterra. Il chitarrista ha già esperienze fondamentali: una madre violinista, una precoce disposizione alla musica e studi severi di pianoforte e composizione. Impara da solo proprio la chitarra, ma acquista velocemente una tecnica straordinaria. Quando compie il viaggio transoceanico ha suonato in Inghilterra ragtime, popular music, blues acustico, rock’n’roll, nonché jazz informale in quartetto con John Surman, Brian Odges e Tony Oxley.
Sono trascorsi trentasette anni. Oggi si possono condividere le idee di chi sostiene che McLaughlin rappresenta in tutto il mondo, per almeno due generazioni di chitarristi, ciò che Davis è per legioni di trombettisti, compositori e direttori: una guida, un punto di riferimento ineludibile e uno scopritore di “generi”.
La sua versatilità gli deriva dalle molteplici esperienze: a quelle già citate si possono aggiungere il flamenco, il rock, il magistero del chitarrista Tal Farlow, l’idoneità a dirigere gruppi non comuni. Da ogni cosa ha ricavato elementi significativi, approdando a un’abile sintesi, favorita da un virtuosismo strumentale al limite dell’umano. La sua articolazione utilizza largamente lo staccato, e la velocità di cui è capace oscilla fra la prodezza e l’esibizione.
Il fervore con cui si è dedicato e continua a dedicarsi alla musica indiana è proverbiale: ha perfino fatto fabbricare un metronomo in grado di contare i tempi dispari (5, 7, 11) tipici dei ritmi indiani, e possiede una chitarra, da lui commissionata, che ha un tasto cavo per ottenere dalle corde un effetto di risonanza simile a quello del sitar indiano.
«È vero, ho fatto proprio di tutto, anche concerti con orchestre sinfoniche» ci ha confidato qualche tempo fa, quando era avvicinabile con facilità per via di un piede fratturato (ci tocca approfittare anche di questi guai). «Sa, quando ci si affaccia ai sessant’anni si riflette di più, si tende a guardare indietro più che avanti e si tracciano consuntivi preziosi. Al di là dei miei sodalizi musicali, davvero innumerevoli ed essenziali, rivivono in me gli studi di Filosofia e le pratiche religiose.

All’inizio degli anni Settanta divenni discepolo del guru indiano Sri Chinmoy Kumar Ghose, abbandonato nel 1975; presi il nome di Mahavishnu e chiamai Mahavishnu Orchestra il mio complesso di allora. Vestivamo di bianco e suonavamo seduti all’orientale. Poi mi venne l’idea di Shakti, con lo scopo di attuare una sintesi fra i suoni dell’Oriente e dell’Occidente».

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