Barack Obama e famiglia pensano alle ferie (la sesta vacanza per il presidente), gli iracheni allapocalisse. Quando allalba di ieri la quarta brigata Stryker ha varcato il confine del Kuwait mettendo la parola fine alla missione Iraqi Freedom e a sette anni di sanguinose operazioni, gli iracheni hanno cominciato a sudare freddo. Dal loro punto di vista, il ritiro di Obama è un abbandono. Anche perché gli ultimi 50mila soldati statunitensi, impegnati dal primo settembre nelloperazione «Alba Nuova», sono tuttaltro che una garanzia. La loro missione, incentrata esclusivamente sulladdestramento di polizia ed esercito, non si prolungherà oltre il primo gennaio 2012, quando anche lultimo di loro farà ritorno in patria. Certo a garantire la difesa delle ambasciate statunitensi e - in caso di necessità - a dar man forte a esercito e polizia - resteranno oltre seimila «contractor» equipaggiati con elicotteri, mezzi blindati e missili. Quellarmata mercenaria, pagata e finanziata dal Dipartimento di Stato, non basta però a tranquillizzare gli iracheni. Gli ex sudditi di Saddam Hussein sanno bene che le compagnie private pagate per difendere gli interessi statunitensi non sono certo in grado d impedire un eventuale «sindrome jugoslava». Quella sindrome rischia dinnescare una lotta a tre tra curdi, sciiti e sunniti e di riportare il Paese alla guerra civile favorendo una progressiva disintegrazione dello Stato nazionale.
La grama profezia è già abbozzata sulle cartine della geopolitica. Quelle mappe preconizzano un Irak senza futuro con le regioni meridionali, a maggioranza sciita, trasformate in «dependance» iraniana, il triangolo sunnita nelle mani di un califfato al qaidista e il Nord sotto il controllo delle fazioni curde o dellesercito turco. Lostinazione con cui Obama ha respinto i suggerimenti di chi - dal Pentagono a Bagdad proponeva di ridiscutere i tempi delladdio è tutta legata alle elezioni di metà mandato, a novembre. Angosciato dalla paura di ritrovarsi abbandonato della sinistra pacifista, il presidente non si concede neppure mezzo passo indietro. E così nel nome delle elezioni di mid-term è pronto a gettare alle ortiche i successi conquistati dal generale David Petraeus nel 2007 e a mettere a rischio la sopravvivenza di uno Stato iracheno già sullorlo del disastro istituzionale.
La grande crisi dura dalle elezioni di marzo, quando la coalizione guidata dallo sfidante Ayad Allawi conquistò 91 seggi mentre quella del premier Nouri Al Maliki se ne assicurò 89. Da allora, nessuno è riuscito a garantirsi i 163 voti necessari a formare un governo. Grazie a questo vuoto di potere, le milizie filo iraniane di Moqtada Sadr sono tornate a controllare larghe fette del Sud. Nel triangolo sunnita il disastro è ancor più evidente. Le formazioni sunnite protagoniste a suo tempo della lotta ad Al Qaida a fianco di Petraeus si sono ritrovate dimenticate. E a volte persino non pagate. Così oggi molti militanti sfiduciati e senza stipendio tornano a fiancheggiare i terroristi. E le conseguenze si fanno sentire. Il 2 agosto i terroristi hanno fatto irruzione in una caserma della polizia massacrando nove agenti e facendo sventolare la loro bandiera su un quartiere di Bagdad. E 48 ore prima del completamento del ritiro americano, un autobomba ha fatto strage di reclute davanti a una caserma riportando la capitale ai tempi dellorrore. Ma il ritorno di Al Qaida è poca cosa rispetto alla sinistra minaccia che grava su Kirkuk, la città del Nord contesa da curdi e arabi e considerata, grazie alle sue immensi riserve di petrolio, la più importante cassaforte energetica del Paese.
Lassenza di un governo e linerzia della Casa Bianca hanno impedito la stipula di un accordo e così la città rischia di trasformarsi nel focolaio di unaltra guerra civile tra milizie arabe e curde.
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