L’analisi Quando la «secessione» era di sinistra

Le vicende dell’Italia moderna possono essere lette anche come il continuo scontro fra i difensori della sua unità politica e i suoi avversari: sia quelli «storici» che gli unitaristi «pentiti» a causa dei non sempre felici esiti dell’unità.
Lo scontro fra le due visioni è stato inizialmente incarnato da Mazzini e Cattaneo: il primo voleva l’unità a tutti i costi, il secondo riteneva di gran lunga più importante la libertà. È prevalso il primo e l’unità si è raggiunta a prezzo della perdita più o meno temporanea di tante libertà. Troppe, perché alla fine l’Italia-Stato non è andata bene neppure più a Mazzini, che nei suoi ultimi anni ha scritto disgustato: «Veder sorgere quest’Italia servile, opportunista, cieca e immorale, era peggio che non vederla sorgere».
Inizialmente perciò le critiche all’unità e allo Stato sono venute dalla sinistra repubblicana e federalista. Hanno trovato una declinazione adulta in Turati, nelle giornate milanesi socialiste ma anche «secessioniste» del 1898, in Gramsci e in larga parte delle fazioni rivoluzionarie. Per contro, la destra borghese e «liberale» l’ha invece sempre difesa anche utilizzando - secondo la corretta analisi di Sergio Romano - «guerre e sangue», fino alla inutile strage del 1915-18 con cui si è preteso di forgiare l’unità nazionale nei cimiteri. La destra era unitarista perché serviva un grande mercato nazionale, indispensabile presupposto per ogni sviluppo economico e industriale nell’Ottocento.
Nel tempo i ruoli hanno però finito per confondersi e invertirsi: al binomio «unità/libertà», si è sostituito quello «Stato/mercato». Oggi in epoca di globalizzazione e di unità europea, lo Stato e il mercato nazionale, che esso rappresenta e difende, non sono più una forza ma un peso: agiscono meglio le economie più agili, meno appesantite da pesi fiscali e burocratici. Sono perciò avvantaggiati gli Stati più piccoli in dimensioni sia geografiche che istituzionali. Oggi la destra «liberale» più moderna è diventata liberista se non addirittura libertaria. Per contro certa sinistra non è più contro lo Stato borghese giacché vive di statalismo (anche e soprattutto in termini elettorali), soprattutto in un paese come l’Italia che rappresenta uno degli ultimi reliquati di socialismo reale. Si sono create due situazioni contrapposte e ampiamente trasversali agli schieramenti politici tradizionali. Da una parte ci sono gli statalisti (di destra e di sinistra) che difendono i privilegi che derivano dal gigantismo istituzionale: sia quelli robusti della «casta» politica e dei gran commis, che quelli più sottili di pubblici dipendenti, pensionati d’invalidità fasulla e mantenuti vari, cui si aggiungono - nuovi clientes - gli immigrati che dallo statalismo traggono vantaggi. Contro ci sono i nemici dello Stato in generale (i liberisti) e del centralismo (gli autonomisti), due categorie che in Italia traggono robustezza proprio dall’elefantiasi dello Stato.
È in quest’ottica che diventa coerente la posizione di Fini. È uno statocrate gentiliano che entra nel partito post-moderno degli statalisti. Non è un caso che si ritrovi in compagnia di vecchi comunisti in carriera, sindacalisti, buonisti, teorici dell’accoglienza infinita e degli immigrati medesimi. È il grande partito dei «mantenuti», di quelli che vivono di Stato e perciò sono statalisti, che vivono di Italia e perciò sono patrioti. Fini non tradisce nessuno, non cambia casacca, semplicemente si adegua ai nuovi schieramenti.

In questo porta chiarezza, gliene si renda atto. È dalla parte dei sodali di Mazzini del XXI secolo, predica unità e Stato: dall’altra ci sono gli emuli di Cattaneo, che vogliono libertà e autonomie. Speriamo, questa volta, con esiti diversi.

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