L’arma made in Usa contro le oligarchie

Le elezioni primarie sono una scoperta piuttosto recente della politica Usa. Nella Costituzione americana del 1787 si parla molto di people e poco di partiti. Solo dopo quasi mezzo secolo nasce la tradizione di affidare alle convention nazionali la scelta dei candidati alle elezioni presidenziali. Un primo ricorso alle primarie locali arriva dopo gli anni della Reconstruction (dopo la Guerra Civile che va dal 1863 al 1877) negli Stati del Sud. Il partito repubblicano è scomparso dal territorio della Confederazione e i democratici si trovano spesso a governare in un contesto di monopartitismo rigido. Dovendo tenere conto di interessi e idee in contrasto anche radicale tra loro, nel Sud a volte ci si affida alle primarie per restituire una parvenza di democrazia al sistema. Al di fuori della Bible Belt, le primarie nascono con finalità diverse. L’obiettivo, soprattutto nel Midwest all’inizio del XX° secolo, è sbarazzarsi delle vecchie oligarchie che controllano i partiti con metodi che spesso scivolano nell’illegalità e che raramente garantiscono trasparenza. I «boss» locali si spartiscono i flussi delle ondate migratorie, gestiscono l’avvicendamento delle cariche giudiziarie elettive (e perfino la scelta delle giurie popolari), si alleano con la criminalità e con la mafia per mettere a tacere i candidati scomodi. Si aggiunge una corruzione dilagante.
Le primarie sono viste come il modo più efficace per cambiare il sistema senza sconvolgerne le fondamenta. Inizia il Wisconsin - epicentro del movimento riformatore - nel 1903, ma il primo esperimento su larga scala per le elezioni presidenziali arriva nel 1912 in campo repubblicano. Al presidente uscente, William Taft si contrappongono due pesi massimi del Gop: Theodore Roosevelt (già alla Casa Bianca dal 1901 al 1909) e il progressive Robert M. La Follette. Le primarie vengono organizzate in 12 Stati. Roosevelt ne vince nove (8 con distacchi enormi) e La Follette ne vince due. Pur conquistando solo il Massachusetts - e perdendo perfino lo Stato natale dell’Ohio - Taft controlla la macchina del partito alla Convention di Chicago. E riesce ad assicurarsi il sostegno della maggioranza dei delegati. Roosevelt, infuriato, lascia il partito, crea il Progressive Party e corre solo. Risultato: le elezioni le vince il democratico Woodrow Wilson (43%), mentre Roosevelt (27%) conquista più voti di qualsiasi altro «terzo partito» nella storia americana. I repubblicani, che hanno disprezzato il voto dei loro elettori, non vanno oltre il 23%. Alle primarie si inizia a guardare con rispetto. Durante e dopo i due conflitti mondiali, i partiti lavorano sotto traccia per riconquistare il controllo nella selezione della propria classe dirigente. Se nel 1916 quasi metà degli Stati adotta le primarie per scegliere i candidati alla presidenza federale, nel 1964 questo numero scende a meno di un terzo. Il metodo preferito diventa quello del caucus (significa «riunione a gambe incrociate davanti alla tenda»). Come i capi tribù pellerossa sceglievano i propri capi, così nei caucus gli attivisti del partito - o meglio, i boss locali del partito - scelgono i propri candidati. Le primarie vengono appena tollerate, quasi fossero un «sondaggio» per misurare la popolarità dei candidati meno noti. John F. Kennedy, per esempio, nel 1960 le sfrutta molto bene.
Bisogna aspettare la convention democratica di Chicago del 1968 per assistere a un ritorno in massa al metodo delle elezioni primarie dirette. La nomina di Hubert Humphrey (favorevole alla guerra in Vietnam), in contrasto col sentimento prevalente nella base del partito, porta a un moto di ribellione così intenso da costringere i democratici a rinunciare quasi ovunque ai caucus. E i repubblicani, più o meno, si adeguano. Dal 1972 in poi, la maggioranza degli Stati americani impone per legge l’utilizzo delle primarie dirette come metodo principale per la selezione delle candidature politiche.

Da macchine per il controllo delle istituzioni, i partiti si trasformano in «strutture leggere» al servizio dei candidati. Esprimono linee-guida e indirizzi generici, ma perdono il ruolo di «fabbriche del programma», che è affidato ai singoli candidati. E le idee tornano al loro posto: nella testa dei singoli individui.

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