L’Italia beve con meno di 5 euro

nostro inviato a Verona
Al Vinitaly edizione quaranta si perde il conto dei volti sorridenti. Certo, tutti vorrebbero non stressarsi inseguendo tizio o caio, tutti sognano di vendere anche la produzione dell'anno prossimo a prezzo doppio rispetto all'anno prima ma questo appartiene al mondo dei sogni. Sono contenti i produttori perché sembra che il vino sia tornato un motivo di prestigio per l'Italia e non un droga da combattere (gli eccessi appartengono a un altro capitolo), sono felici i cuochi, Massimo Bottura e Moreno Cedroni, Aimo Moroni e Roberto Petza, Gennaro Esposito e Pier Bussetti, che spignattano e impiattano negli stand più raffinati perché i grandi vini vanno esaltati dai grandi cibi.
Il Vinitaly come una giostra dove non puoi non esserci (magari per contestarlo come i tre «contro-vinitaly» nel segno dei vini biologici, tre ottime realtà ma, purtroppo, in lite tra loro circa la natura della «vera» bio-ortodossia) e dove tutti cercano i loro quindici minuti di popolarità che per alcuni durano ben più a lungo come per Alessandro Regoli, il motore di Winenews, sito che ha partorito www.winenews.tv ovvero una tv sul web dove mandare in onda filmati fatti con la videocamera, ovvio, ma anche con i telefonini, meno ovvio.
Cibo e vino cercano di lasciarsi alle spalle la crisi economica dell'Italia il più in fretta possibile e assieme cercano nuove formule e nuovi mercati. Sembra quasi che non conti più dove vendi e consumi il vino, nell'enoteca piuttosto che nel ristorante stellato, bensì che lo vendi e lo consumi. Così ecco che nel 2005 le vendite di vino nella grande distribuzione hanno toccato il 62% del volume totale. In un lustro l'incremento è stato del 50% quanto a valore (per un totale di un miliardo e 100 milioni di euro) e del 22,5 quanto a volumi. Chiaro che la fascia di prezzo più affollata, davanti agli scaffali dei supermercati, è quella bassa, 3 euro. E se si resta sotto i 5 euro si scopre che l'80% del venduto è lì. Ecco perché i vitigni più richiesti sono Lambrusco, Sangiovese e Barbera. E a ridosso del podio Trebbiano e Montepulciano d'Abruzzo. Altro che gli aristocratici Chardonnay, Pinot Nero e Carbernet Sauvignon. Quasi sconosciuti agli esperti dai mille retrogusti nel naso, compresa la mitica capra bagnata, un tanfo immondo, altro che lo Chanel n.5 di Marilyn, i vini più venduti. Tenetevi forte: Garzellino Coltiva Secco, Freschello Rosso e Freschello Bianco, Maschio Pinot Rosa, Tura Lamberti Bianco e così via fino al Bigi Est Est Est, tutti prodotti che se metti in degustazione in un consesso di soloni o in carta in un locale stellato ti ridono dietro.
È così in ogni settore: nessuno recensisce i vestiti dei grandi magazzini o i cosmetici che se usi per lavare il cane è meglio. Però sono i più venduti. Ma non si può pensare che tutti abbiano i soldi per le grandi bottiglie e allora ecco i grandi ristoranti correre ai ripari. Secondo un'inchiesta condotta da Veronafiere e Confcommercio, il cosiddetto diritto di tappo (ovvero il potersi portare una propria bottiglia al ristorante pagando solo il servizio del sommelier) è garantito dal 60,5% dei titolari interpellato, ma per esperienza la realtà è molto più bassa. Mentre non si discosta il dato relativo all'offerta al bicchiere: 78,4%, favorito non solo dai prezzi sempre più alti dei vini importanti, ma anche dai controlli stradali che favoriscono una tendenza che non è di ieri ma di alcuni anni ormai: bere meno ma meglio per stare sempre bene. Non solo: l'88,9% dei posti medio-alti non arricciano più il naso se uno si ritappa la bottiglia e se la porta via. Sarebbe una cosa sacrosanta perché uno l'ha pagata tutta, però noi italiani ci vergogniamo sempre un po', non siamo come gli americani che fanno doggy bag con tutto, dall'antipasto al dolce.
Più a fondo, i grandi produttori e distributori si interrogano sul futuro. Il trevigiano Luca Cuzziol nota come le bollicine piaccono a tutti e tutti devono tutto, dal Prosecco allo Champagne, mentre a livello di vini fermi, vanno molto meglio i rossi dei bianchi, a patto siano di alta qualità. Il piemontese Marco Parusso inneggia alla tipicità dei vitigni nostrani e si lamenta dei cuochi che prediligono la spettacolarità dei piatti a scapito della sostanza e del gusto». Traduzione: non sai cosa berci assieme. E Renzo Cotarella, direttore generale di Antinori, chiede «una pausa di riflessione per chiedersi se il percorso qualitativo iniziato negli anni Novanta non deve essere corretto nel segno dell'eleganza e della personalità di un vino a scapito della possanza. Va incentivato l'utilizzo di uve autoctone così come a livello di vini quotidiani va migliorata la gradevolezza e accentuata la personalità. Dobbiamo dari ai consumatori una ragione perché bevano vino». E non altro. E l'umbro Marco Caprai invoca una stretta collaborazione tra vigna, cucina e scuola. «Dobbiamo renderci conto che se non difendiamo le nostre peculiarità, se diamo per scontato che in America si gratta parmesan o che il sangiovese può essere australiano, in un decennio si formeranno nei nuovi mercati, realtà che gusteranno italiano a prescindere dai prodotti realmente italiani. Dobbiamo formare sommelier cinesi ad esempio che sappiano distinguere Baroli e Sagrantini, dobbiamo cambiare la legge sull'immigrazione perché sta danneggiando la ristorazione perché se in Giappone c'è il boom della cucina italiana è anche perché fino a un paio di anni fa tanti giovani giapponesi venivano a fare pratica dai nostri grandi cuochi e adesso non più. Stiamo regalando tutto un settore a Spagna e Francia dove sanno lavorare come nazione e non come singoli produttori».

La morale del Vinitaly numero 40? «Siamo un gigante dai piedi d'argilla», parola di Caprai.

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