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L’Italia del maccartismo rosso

L’Italia del maccartismo rosso

«Non sono le loro idee che mi spaventano. Sono le facce» diceva Leo Longanesi. Guardando il volto del senatore Joseph McCarthy, il teorico della «caccia alle streghe» negli Stati Uniti dei primi anni Cinquanta, non si può che dargli ragione. Il maccartismo fece più danni nel campo democratico di quanti ne inflisse in quello avverso del pensiero comunista, anomalo e insignificante, del resto, in una nazione dove le ideologie erano, e sono, un optional, i partiti politici un affare, l'individualismo una ragion d'essere. Impensabile in un Paese europeo il fenomeno attecchì, per quanto temporaneamente, oltreoceano proprio perché saltò a piè pari la logica del dibattito intellettuale in nome della crociata etico-patriottica, di qui il bene, di là il male, di qui i veri americani, di là i traditori... Quando uno Stato comincia a fare l'esame del sangue ai propri cittadini, c'è qualcosa che non va. Nello Stato, naturalmente, perché c'è sempre qualcuno che erige la propria purezza a incontestabile metro di giudizio.
Il bel film con la regia di George Clooney, Good Night, and Good Luck, presentato ieri in concorso al Festival, racconta proprio questo, il confine fra gli interessi legittimi di sicurezza nazionale che ogni governo è chiamato a rappresentare e difendere e i diritti di libertà, pensiero e parola, che ogni cittadino ha il dovere di esercitare. Se i primi prevaricano sui secondi, oppure questi ultimi, spontaneamente o «spintaneamente», per tornaconto, rassegnazione, paura, si restringono, si altera il meccanismo del vivere civile.
Clooney sa benissimo che un divo di Hollywood è, nel campo delle idee e dell'impegno, come un elefante in una cristalleria. Conduce una vita che pochi mortali possono permettersi e tuttavia fa parte di un sistema che non può ignorare, pena l'espulsione dallo stesso, e con il quale deve comunque convivere. Non è il primo e non sarà l'ultimo di una lista di attori che cercano di conciliare gli affari con l'impegno e la cosa non ci turba né ci entusiasma. Proprio per evitare una sovrapposizione che avrebbe più nuociuto che giovato al tema in sé, intelligentemente si è scelto in questo film un ruolo defilato, lasciando a un bravissimo caratterista, David Strathairn, il ruolo principale, ritagliato oltretutto su un giornalista televisivo realmente vissuto, Edward R. Murrow, e che fu fra gli artefici della fine del maccartismo in Usa.
Una frase del vero Murrow, del resto, è una delle chiavi di lettura di Good Night, and Good Luck e suona, cito a memoria, così: «Proprio perché ho le mie idee e sono sicuro della loro validità, non ho paura di confrontarmi con chi la pensa diversamente». La demonizzazione dell'avversario svilisce per primo chi la fa, riducendo il proprio pensiero a stereotipo nello stesso istante in cui nega all'altro una dignità.
Accolto da grandi applausi, il film sarà apparso alla maggioranza della stampa italiana accreditata come una sorta di risarcimento verso una professione che non gode di buona fama. Chi si accontenta gode e se questo basta per lenire frustrazioni intellettuali e code di paglia professionali, buon per lui. Chi, come noi, ha discreta memoria e un'età per ricordare vorrebbe tuttavia qualcosa di più. In Italia non c'è stato il maccartismo, ma fra gli anni Sessanta e fino a che il Muro di Berlino non crollò sulla testa di chi si era ostinato a non vederlo, ci fu una sorta di razzismo intellettuale e ideologico per il quale non essere di sinistra significava non esistere o venire condannati al ludibrio, alla delazione, alla calunnia. Articoli di quotidiani e periodici grondavano di firme di «pistaroli neri» dediti al killeraggio, si censuravano in prima pagina nomi scomodi di giornalisti gambizzati dal terrorismo brigatista, si occultavano notizie di vandalismi in fabbrica, si travestiva da controinformazione quella che era volgare propaganda e spesso e volentieri pura incitazione alla violenza. L'idea che fondatori ed epigoni del peggior giornalismo partigiano gridino oggi alla libertà di stampa minacciata e al rischio di un nuovo regime è insieme ributtante e grottesca, proprio perché proviene da chi mai si è preoccupato di sentire le voci del possibile avversario, premurandosi invece di silenziarlo, applaudendo quando un giornale non allineato chiudeva, rifiutando qualsiasi appoggio o tutela sindacale e di categoria.
Per questi suoi rappresentanti, un film come Good Night, and Good Luck è purtroppo un'occasione sprecata: dal passato non hanno imparato nulla, ma in compenso hanno dimenticato tutto: le firme sotto gli appelli più infami, il falso spacciato per vero, la militanza come modo di fare carriera, le cantonate ideologiche, le previsioni mai azzeccate... Per chi invece ama la propria libertà d'espressione quanto quella altrui è un buon motivo per riflettere sulle grandezze e le miserie della professione.
Lo stesso discorso vale, tuttavia, sulla barricata opposta, quella dei responsabili dell'ordine costituito, dei legiferatori e degli uomini politici a cui noi, in quanto cittadini, diamo un mandato affinché, governando, ci rappresentino. L'interesse nazionale non può essere un alibi o una copertura, e la restrizione delle libertà individuali una scorciatoia o un modo per evitare critiche e/o responsabilità. Non c'è niente di peggio di un sistema democratico-parlamentare (in sé il massimo delle libertà, del rispetto e della dignità della comunità che è chiamato a incarnare) che non crede in sé stesso e si riduce a un modesto insieme di corruzione, quieto vivere e mediocre pragmatismo. Ancora Longanesi, di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita, l'aveva già saputo dire meglio di noi: «Per indisposizione del dittatore la democrazia si replica». Ma è solo, appunto, una caricatura, ridicola e/o tragica.

Come il maccartismo.

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