L’ossessione della privacy ci farà diventare anonimi

Caro Granzotto, ho scoperto che, pur essendo sposato e continuando ad esserlo senza interferenze di separazioni, divorzi, morti, Dico, Cus e altre diavolerie del genere, secondo il mio municipio non sono più coniugato. Lo ero fino a che non ho dovuto rinnovare la carta d’identità. Sembra infatti che, per tutelare la mia e di mia moglie privacy, oggi non si usi più apporre su questo documento la situazione dello stato civile di buona memoria. Noi italiani siamo dei fenomeni, da quando abbiamo scoperto questa parola magica, «privacy», ne abbiamo fatto di cotte e di crude. E non è finita lì. Intanto, nel progredito Regno Unito, la moglie, al momento del matrimonio, viene identificata nei vari documenti personali (nella carta d’identità no, perché non esiste), semplicemente col cognome del marito.


Bé, non è proprio così, caro Fassone. Ci arriveremo, questo è certo, ma dalle carte di identità la dichiarazione dello stato civile non è ancora stata depennata. È, per ora, diventata facoltativa, forse per tutelare la privacy, forse per favorire le così dette scappatelle, vai a sapere. Vittima della sragionante ossessione della tutela della nostra privatezza è invece l’indicazione della professione: molti uffici anagrafici la riportano solo su esplicita domanda dell’interessato, altri l’hanno abolita così non se ne parla più. Andrà a finire che per difenderla, ’sta benedetta privacy, prima o poi dai documenti di identità toglieranno la data di nascita (e chissà quante signore tireranno un sospiro di sollievo), quindi la residenza ed infine, tra il rullare dei tamburi politicamente corretti, il nome e il cognome, ovvero il dato più «sensibile» che esista e che dunque più d’ogni altro ha necessità di essere protetto.
Come lei ricorda, caro Fassone, gl’inglesi non hanno l’equivalente della nostra carta di identità e per lungo tempo non ebbero nemmeno il passaporto. La prima era ed è sentita come una ingerenza dello Stato, un impicciarsi di questioni che non lo riguardano. Il secondo come una sorta di umiliazione per i sudditi dell’Impero che, in quanto tali, non ritenevano fosse necessario un documento speciale per potersi recare dove più piaceva loro. Ora le racconto un fatto che la dice lunga sull’atteggiamento degli anglosassoni nei confronti delle paperasses. Robert Byron, l’autore de La via per l’Oxiana, in assoluto il miglior libro di viaggi che mai sia stato scritto, altro che Bruce Chatwin, al momento di mettersi in cammino si trovò costretto (era il 1935) a riempire il modulo di richiesta del passaporto, divenuto indispensabile per chi, come lui, intendeva recarsi in Persia e in Afghanistan. Indispettito, se lo rigirò a lungo nelle mani chiedendosi a chi mai potessero interessare tutte quelle informazioni sul suo conto, quindi, rassegnato, prese la penna e cominciò a compilarlo, sbuffando ad ogni domanda.

Giunto a «accompagnato da» (voce che in genere si riferiva alla consorte, al figlio, ad un domestico), levò le braccia al cielo, furente: accompagnato da? Che scemenza! E butto giù: «Da un libro di Henry James». Quando poi arrivò a «segni particolari» perse proprio la trebisonda continuando a sibilare «Che senso ha? Cosa si intende per segni particolari?». Alla fine si decise e vergò: «Di aspetto malinconico».

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