«La letteratura non è competizione»

I protagonisti sono sempre il libro e il suo lettore Editori, recensori e critici sono al più comparse

«Ero senza un soldo, depresso, un fallimento totale di trentatrè anni di età. Fu allora che mi chiamò Francis Wyndham del Sunday Times, un uomo di cognizioni letterarie fuori del comune, che conoscevo a malapena. Mi sarebbe piaciuto - mi chiese - un lavoretto come critico d’arte? “Certo”, risposi. Ben presto mettemmo l’arte da un lato e sotto la guida di Francis fui in grado di scrivere di qualsiasi cosa: immigrati algerini, couturier francesi, Grande Muraglia cinese... Ogni volta che tornavo da un viaggio con una storia, Francis Wyndham mi incoraggiava, criticava, correggeva e riusciva a convincermi che avrei dovuto, dopotutto, cimentarmi in un ennesimo libro. Il suo più grande dono fu il costante incoraggiamento a continuare».
È Bruce Chatwin a raccontare come un grande intuito per la letteratura possa dare vita a un grande scrittore: Francis Wyndham è l’incarnazione di quel flair, impastato di grandi letture, entusiasmo e sguardo incorrotto, grazie al quale molti scrittori che hanno segnato il Novecento sono stati scoperti o riscoperti. Classe 1924, londinese purissimo, per molti anni consulente editoriale e poi recensore per il Sunday Times, Wyndham è una delle figure più affascinanti dell’editoria britannica, di cui conosce segreti e bugie e grazie alla quale ha trovato i suoi migliori amici: gli scrittori. Alla cui schiera appartiene, anche, seppur con understatement, schernendosi: «A metà degli anni Settanta recuperai dei racconti scritti a diciott’anni, quando ero certo che non sarei mai diventato uno scrittore. Li pubblicai con il titolo Out of the war. Fu un successo. Buon pubblico, ottime recensioni. Mi sentii incoraggiato: debuttavo a cinquant’anni».
Così incoraggiato che ci mise altri tredici anni a scrivere il suo unico romanzo, L’altro giardino, con cui debuttò di nuovo, a sessant’anni suonati, e vinse il prestigioso «Whitbread Book Award» per l’opera prima. Questo gioiello di prosa, storia dell’insolita amicizia tra un adolescente e un’eccentrica trentenne durante l’estate che precede lo scoppio della seconda Guerra mondiale, è appena stato tradotto per la prima volta in Italia (Elliot, pagg. 128, euro 12,50). L’ennesimo debutto tardivo, per Wyndham, che dalla sua casa di North Kensington ci racconta oltre mezzo secolo di editoria inglese, durante il quale accanto a lui si sono seduti, a un caffè, alla scrivania o sul divano del suo strepitoso salotto scarlatto, Bruce Chatwin, Harold Pinter e lady Antonia Fraser, V. S. Naipaul, Colin MacInnes, Henrietta Moraes, fino a un giovane talento come Edward St. Aubyn. L’amicizia più intensa, tuttavia, quella che ricorda ancora con commozione, fu con Jean Rhys, la scandalosa e dolcissima autrice di Buongiorno, mezzanotte (1939, in Italia pubblicato da Bompiani) e Il mare dei Sargassi (1966, Adelphi).
Come scoprì Jean Rhys, Mr. Wyndham?
«Non direi che esattamente che la scoprii, ma di certo feci ricominciare la sua carriera. A metà degli anni Cinquanta, era stata dimenticata. Adoravo i suoi libri ma l’assenso a ripubblicarla mi venne negato perché tutti, me compreso, pensavamo che fosse morta, in un sanatorio».
Invece lei la «riportò in vita»...
«Radio Times fece un adattamento di Buongiorno, mezzanotte. Così scoprimmo che era ancora viva. Le scrissi. Lei rispose. Disse che stava lavorando a un nuovo romanzo. Dissi all’editore di pagarle un forte anticipo. Quel romanzo era Il mar dei Sargassi».
Da quel momento non avete più smesso di scrivervi.
«Jean era meravigliosa, il nostro fu un epistolario corposo, in parte pubblicato. Stavamo per ore davanti a un cocktail a parlare di vecchie canzoni. Molti la trovavano difficile, perché era modesta sulla sua scrittura e però la prendeva terribilmente sul serio, fino ad ottenere quello stile insolito, seducente, balzachiano. Rifuggiva la celebrità e ripeteva spesso che se non fosse stata una scrittrice avrebbe avuto una vita più felice. L’ho conosciuta bene, eppure c’era qualcosa in lei che non sono riuscito ancora a definire del tutto: quella sua visione tragica della vita, l’assenza totale di illusioni».
Una specie di maledizione?
«Uno straordinario talento letterario che alla fine si impose come una maledizione. Passava tutto il tempo ad ascoltare la realtà».
Che cos’è il talento letterario?
«Not exaggerating, not understating: la benedizione della perfezione, che diviene potente nella lettura. E comunque ci sono tanti modi di essere uno scrittore meraviglioso».
Ci può rivelare qualche regola per riconoscerne uno?
«Se leggi o scrivi una frase nella tua lingua, traducila sempre in francese. Se è tua e non va, eliminala o cambiala. Sennò, cambia scrittore. E poi, sempre leggere in originale. Sono convinto che se si legge una traduzione non si può mai davvero dire di aver letto quel libro».
Altre regole?
«Quello che mi eccita nella prosa è il feeling tra la vita palpitante e lo scritto. Un vero talento sa usare le parole come fossero esseri viventi che non sono mai stati usati prima. E ora cancelli tutto: non credo nelle regole sulla scrittura. Tutti i più grandi scrittori sono diversi uno dall’altro».
I recensori a che cosa servono, invece?
«Il buon recensore è un outsider che cerca di aiutare lo scrittore e non ce la fa quasi mai. Perché è in una pessima posizione».
Cioè?
«Ci pensi: il recensore è un lettore svantaggiato, che legge un libro perché lo pagano e non perché lo desidera davvero. Così la sua vera relazione con l’autore è sempre clandestina e quella pubblica rimane una facciata».
E invece come dovrebbe essere?
«Editori, recensori, critici sono solo comparse, o spettatori. I protagonisti sono il libro e il suo lettore. Una storia d’amore assolutamente privata. E piena di passione».
E le classifiche, i canoni, i premi letterari?
«Giochi di società. Sono contro i canoni letterari, i dieci migliori scrittori e cose così. Per non parlare dei premi: gli inglesi adorano scommettere e competere e ormai qui i premi dominano il mercato. Se sei in long o short list per un premio, allora il libro venderà di certo. Ma la letteratura non ha nulla a che vedere con la competizione. E i premi spesso sono solo ottimi compromessi».
La sua famiglia frequenta i grandi da sempre...
«Mia nonna, Ada Leverson, che adoravo, era una delle migliori amiche di Oscar Wilde, su cui scrisse un memoir che ho pubblicato io stesso qualche anno fa, insieme alle lettere che lui le scrisse: la chiamava “Sfinge”. E fu la mia prozia, Violet Schiff, a presentare Proust a Joyce in un taxi parigino. Mia madre e mio padre scrissero entrambi, e furono pubblicati».
E lei ha continuato la tradizione: tra i suoi protegé ci fu Bruce Chatwin.
«Non fu un protegé. Piuttosto un vero amico. I grandi agli esordi non hanno affatto bisogno di consigli letterari, ma di costanti iniezioni di autostima: sapere che c’è qualcuno, là fuori, per cui stai scrivendo. Io fui questo per Bruce».
Quando decise di partire per la Patagonia, lei c’era.
«Io e un collega del Sunday Times eravamo a New York per una ricerca iconografica e stavamo bevendo un aperitivo al Chelsea Hotel quando Bruce apparve in pantaloncini e zaino e disse: “Sto andando in Patagonia” e uscì. Noi finimmo il drink, uscimmo, ci infilammo in un taxi e non riesco a togliermi davanti agli occhi l’immagine di Bruce che camminava a grandi passi verso la Patagonia. Il resto è storia».
Lei è anche autore di una famosa intervista a Charlie Chaplin. Che ricordo ha di lui?
«Lo conobbi nel 1967. Era già vecchio e del tutto dipendente da sua moglie.

Fragile, amaro, con un’innocenza infantile nello sguardo, per nulla generoso. Amava girare in auto per le strade di Londra e raccontarmi storielle sulla sua infanzia. Lo trovai commovente, perché era così infelice. Era il più famoso attore del mondo ed era davvero infelice».

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