La lezione di un cattivo allievo

La lezione di un cattivo allievo

Un manuale per diventare allievi perfetti. Un manuale per insegnare meglio. Un manuale per perdonare i nostri figli all’ennesimo brutto voto. È il libro che tutti aspettavamo. Perché la scuola interessa tutti. Da ragazzi ha fatto paura a tutti. Da adulti ha fatto sudare molti, insegnanti o genitori. Il manuale in questione si chiama Diario di scuola (Feltrinelli, pagg. 252, euro 16, traduzione di Yasmina Melaouah), è da oggi in libreria e l’ha scritto Daniel Pennac. Un romanziere, per come lo conosciamo noi, il papà della tribù di Belleville capitanata dall’antieroe Malaussène, una saga da tre milioni di copie vendute. Un ex asino, per come ama definirsi lui durante le presentazioni di questo volume, che in Francia ha già conquistato 700mila lettori.
«Quattro e tre in francese. Quattro e cinque in matematica. Due in inglese, Tre e sei in scienze»: Daniel Pennacchioni - questo il cognome completo di Pennac, in Italia fino a sabato per presentare il libro - snocciola senza pudore i suoi voti infamanti. Può permetterselo, visto che oggi è uno degli scrittori più amati in patria e fuori. Anche se sua madre dalle delusioni scolastiche non è mai guarita: «Mi chiede ancora: “Ma ce l’hai una casa, a Parigi?”. Le mie pagelle le hanno procurato un indelebile senso di precarietà riguardo al mio futuro».
Eppure Pennac ha elaborato il lutto di un passato da somaro alla perfezione, prima nella vita, poi nella scrittura e non vedeva l’ora di spiegarci come ha fatto: «Questo libro nasce per spiegare come si fa a superare un dolore all’apparenza incomprensibile. Quello che ci viene dall’educazione che dobbiamo subire a scuola» ci racconta. «Ho preso i cattivi allievi, me compreso, come oggetto di studio e ho capito che la scuola provoca loro una grande sofferenza. Lo scontro tra ignoranza e conoscenza è un fenomeno violento. Insegnare è un’intrusione brutale nell’ignoranza dell’individuo. Il bambino deve smettere di giocare, di consumare, di divertirsi per riflettere su qualcosa che gli è ignoto. L’atto costrittivo dell’educazione crea dolore, come tutte le violenze. Obbedire crea dolore».
Se Pennac si fermasse qui crederemmo di essere tornati indietro di quarant’anni. Ma nel settembre del 1969 lo scrittore entrava nella sua prima classe da professore e come docente sarebbe rimasto nelle aule francesi di quartieri come Belleville per oltre vent’anni. Quindi non è certo un inno alla rivoluzione il messaggio che questo libro vuole trasmettere. Eppure ancora nell’anno della maturità, agli occhi dei genitori il suo cane risultava più intelligente di lui. Tanto che il Pennacchioni adolescente con deficit di apprendimento (un anno intero per compitare la lettera A) si ritrovò ad apostrofare l’animale sottovoce: «Domani ci vai tu a scuola, leccaculo!».
«Il compito di un buon professore» prosegue Pennac. «è attenuare il dolore provocato da questa violenza che è l’insegnamento. Un consiglio concreto? Far appassionare i ragazzi proprio alla materia che odiano di più». Di solito è matematica. «Perfetto. Se l’insegnante di matematica riesce a far amare i numeri ai suoi allievi avrà reso un gran servizio. Non alla matematica, ma alla personalità dei ragazzi. Il segreto della pedagogia è far passare la paura. Di rispondere alle domande, di sbagliare, di incontrare lo sguardo accusatorio degli adulti». E alla paura degli insegnanti chi ci pensa? «Tutto il mondo ha paura di fallire. Gli insegnanti perché gli allievi non fanno progressi. I genitori che vivono la somaraggine dei figli come fallimento personale. Bisogna lottare».
A sentirlo, sembra che la scuola, come istituzione, non abbia responsabilità. Che tutto sia affidato alla sensibilità del singolo, a un rapporto docente-allievo basato su maieutica e fiducia. Susanna Tamaro, che nel suo ultimo romanzo Luisito (Rizzoli, pagg. 149, euro 9,60) ha scelto come protagonista proprio una ex maestra elementare, ha dichiarato che sono invece le riforme che possono polverizzare la scuola. Che grazie a quelle errate messe in atto in Italia, genitori e docenti non si parlano più. Che se un insegnante riprende un bambino, la scuola gli si schiera contro. Che dagli anni Ottanta in poi la scuola è stata assassinata.
La Tamaro parla della scuola italiana. Ma non sarà che la delegittimazione degli insegnanti è un fenomeno europeo, forse globale? «La delegittimazione dei professori non è colpa della scuola», risponde Pennac. «È solo il riflesso di uno scadimento più ampio. Delegittimata è la cultura, la sua gratuità. Il professore è diventato un negoziante di sapere, i libri sono merce, dalla culla alla tomba l’individuo è gestito dal mercato, dal desiderio di consumo. È questo che delegittima la scuola. Le riforme non sono nulla, al confronto».
«Nonnaccia Marketing», insomma, come la chiama il professor Pennac nel suo libro, si è appropriata delle menti degli studenti e, rovesciando gli intenti della favola classica, ci vuole un lupo che la divori e restituisca ai ragazzi il cervello. Lupi, dunque, devono essere i professori, lupi buoni che sostituiscano alla superficialità del «tutto e subito» imposta dal consumo, la salutare lentezza, il silenzio, la concentrazione, il sogno che la formazione dell’intelligenza richiede.
Ma in tutto questo, il ruolo della famiglia quale diventa? Ci sarà anche qualche responsabilità extrascolastica se bullismo, violenze in aula registrate al cellulare, atti vandalici e aggressioni si moltiplicano tra gli adolescenti. Pennac ridimensiona il fantasma terrificante del somaro divoratore di civiltà. In Diario di scuola sostiene che si tratta di una minoranza ingigantita dal sensazionalismo dei media. Però poi sottolinea che la sua era una famiglia «normale»: «Con una bella biblioteca in salotto, genitori colti e tre fratelli bravi a scuola, il mio insuccesso scolastico era inspiegabile».

E oggi, prof, qual è la famiglia «normale»? «Quella che passa molto tempo coi figli e non li abbandona davanti alla tv». Anche se al posto di mamma e papà ci sono due padri o due madri o un solo genitore? «L’anormalità è l’isolamento, la normalità il contatto. Perciò non ho nessun pregiudizio in proposito».

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