I libri di Ferdinando Camon - 85 anni fra poco, veneto per sangue e per cultura, narratore della crisi che ha saputo raccontare di volta in volta la morte della civiltà contadina, il terrorismo, il disorientamento della famiglia e le tensioni sociali legate all'arrivo degli extracomunitari in Europa - sono letterariamente contromano, problematici, conflittuali. Ecco perché il suo Il canto delle balene, uscito nel 1989 da Garzanti, viene ora ripubblicato nella collana «Novecento.0» curata da Giuseppe Lupo per l'editore Hacca e dedicata al repêchage della letteratura novecentesca italiana ancora in grado di produrre visioni e porre domande. «Il canto delle balene per me è la celebrazione della vita, il massimo della vitalità, un inno alla gioia. Mi pare strano di averlo scritto io. Quando dicevo a Garzanti: Le darò un libro allegro, rispondeva: Dio mi liberi dall'allegria di Camon. Invece è un libro festante, vitale. L'unico gioioso della mia vita».
In questi stessi giorni torna anche Il quinto stato (Garzanti), il primo romanzo del «ciclo degli ultimi» - il debutto narrativo di Camon - che uscì nel 1970 con un'appassionata prefazione di Pasolini. «Ma sono stufo di vedere ristampato questo libro sempre con il testo di Pier Paolo, al quale sono riconoscente: ma il libro è mio, non suo. E poi ciò che scrive nella prefazione è bellissimo ma sbagliato: i contadini non volevano affatto che quel mondo continuasse a sopravvivere, quello semmai era il suo di sogno, ma volevano diventare borghesi, col televisore, l'auto, i soldi, cioè l'evoluzione che descrivo nel romanzo... Avevo ragione io, non lui, purtroppo». E poi, terzo libro che esce in questi mesi, il pamphlet A ottant'anni se non muori t'ammazzano (Apogeo): «Il libro più disperato che abbia scritto, è il lamento e la protesta di un condannato a morte che va alla fucilazione».
Perché un libro del genere?
«È un libro nato dalla rabbia scatenata dalle notizie che si rincorrevano nei mesi più duri dell'epidemia, quando i reparti di terapia intensiva erano pieni. Si arrivò a distinguere tra morti inaccettabili, cioè di pazienti giovani e produttivi, e morti accettabili, cioè i vecchi che hanno malattie costose... Ma con una simile giustificazione economica della morte, muore la nostra civiltà».
Ma chiunque - dovendo farlo - tra un giovane e un vecchio sceglierebbe il giovane.
«Il punto è che non dobbiamo scegliere. Non si deve lasciare morire nessuno. Enea quando fugge da Troia non lascia indietro il padre Anchise, se lo carica sulle spalle. In fondo, la civiltà nasce lì».
Questa invece è una società che scarta.
«Scarta ciò che non è economico. Ciò che non produce subito soldi...».
Come la cultura, o l'istruzione.
«Appunto. Guardi cosa stanno facendo ai nostri ragazzi. Ma perché hanno nominato Ministro Lucia Azzolina? E non me, invece? È una vita che insegno, scrivo, pubblico libri... Io sono un professionista nel campo dell'istruzione, lei è una dilettante».
Cosa farebbe da ministro dell'Istruzione?
«Una sola cosa, semplicissima. Gli studenti che escono dalla maturità in Spagna, Francia e Germania sono mediamente più preparati dei nostri. Allora prendiamo i loro programmi, li copiamo e li usiamo in Italia. Non c'è da inventare niente, solo studiare cosa fanno gli altri Paesi che hanno tassi di istruzione più alti e seguirne l'esempio».
È questo il punto debole del nostro sistema scolastico: i programmi?
«No, anche il pessimo processo di formazione e selezione degli insegnanti».
Lei ha sempre dedicato molta attenzione, nei libri e negli interventi giornalistici, a scuola e famiglia.
«Ho insegnato per una vita, e sono sposato da 60 anni, ho due figli e quattro nipoti. Me ne intendo...».
Il canto delle balene è un apologo sarcastico sulla vita di coppia che sfatava il mito, nel 1989, che marito e moglie devono dirsi tutto...
«La coppia si basa sul rispetto dei segreti. Mai invadere e devastare il terreno dell'altro. Quando ti sposi, ti sposi con un clan: con lei, con sua madre che è dentro di lei, con i suoi fratelli, con i suoi libri, i suoi film, la sua etica, il suo mondo, con la sua storia... Se vuoi creare con lei un'altra storia, la vostra, ti devi flettere, adattare... Il segreto è non distruggere l'altro».
Com'è cambiata la coppia in questi trent'anni?
«È cambiata completamente perché è stato rivoluzionato il nucleo della coppia: la sessualità. Per la mia generazione il sesso era qualcosa di represso, terrorizzante. Ora è vissuto in maniera più gioiosa, serena. Ma questo non significa che la coppia sia più felice. Anzi. Infatti dura meno. Noi avevamo il matrimonio cattolico che legava indissolubilmente. Perse la religione e l'idea di Dio, cosa tiene insieme la coppia? Niente. Neanche i figli».
A proposito. Ha dato scandalo la frase che Lei ha scritto sul Messaggero veneto a proposito dei genitori contrari alle vaccinazioni: «I bambini devono capire che quel che vuole lo Stato vale più di quel che vogliono i genitori». Se la sente un liberale...
«No, guardi: la mia è fiducia nella Scienza, non nello Stato. In Italia non c'è uno Stato che meriti rispetto, manca la giustizia. Lo Stato italiano è corrotto. Per mia esperienza, anche mafioso. Fin dentro i ministeri. Io ho raccontato nel libro Scrivere è più di vivere un ministero che scopre e nasconde l'illegalità mafiosa. Io non ho fiducia nello Stato italiano. Al presidente della Repubblica, che m'invitava a Roma per il 2 giugno, ho risposto che non andavo per queste ragioni...».
Il popolo italiano è culturalmente antistatalista.
«Nel Nord, e nel mio Veneto, di sicuro. I contadini come gli operai sono diventati piccoli borghesi, e odiano lo Stato. Infatti sono passati a destra e votano Lega, che è nemica dello Stato che sente come predatore e inefficiente. E in questo, nel Nord, c'è una sorta di continuità tra la vecchia Dc, che al di sopra dello Stato metteva la Chiesa, e la Lega, che contro lo Stato mette il territorio e il lavoro. Ma se lo Stato non ha un credito di fiducia e non è autorevole, il popolo cerca l'autorità in altro modo. Svolta a destra e si sfoga nella protesta».
Lei, soprattutto sui giornali, interviene molto nelle questioni sociali e politiche del momento.
«Lo scrittore deve intervenire. Prendere posizione. Dare giudizi. E sono convinto che ogni libro deve avere un valore etico. Io non frequento molto le città che danno notorietà: Roma e Milano. Non vado in televisione. Uno scrittore è nei libri, non nella tv. Se i suoi libri restano, lui sopravvive. Se no, sparisce».
Lei è difficile che sparirà. Ha vinto il premio Strega nel 1978 con Un altare per la madre. E nel 2016 il Premio Campiello alla carriera.
«Io m'incazzo quando sento dire che uno scrittore non muore perché ha vinto un certo premio. I premi non hanno nessun valore culturale. Non sono un giudizio critico. Nessun premio, nemmeno il Nobel, aggiunge qualcosa a un libro. Io non ho partecipato allo Strega. Fu la patrona dello Strega, la Bellonci, a spingere Garzanti a convincermi a partecipare.
Non amo i premi. Se me li danno non li rifiuto, perché anche rifiutarli è uno sforzo, ma non li cerco. Del resto, non ho mai letto un libro in base ai premi che ha vinto, semmai a qualche recensione che ho trovato sui giornali».
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