Per lui la calunnia fu una tempesta, altro che venticello

È stato l’italiano più calunniato dell’800 a opera di altri italiani che si pretendevano più italiani di lui. Un falso, giacché era italianissimo. Ma la più gigantesca opera di disinformazione mai attuata nel Bel Paese lo mise in ridicolo, cancellando i lati positivi e drammatici della sua personalità.
La madre, una Beata di Santa romana Chiesa, morì dandogli la luce. Ebbe un’infanzia malinconica con qualche studio e molta religiosità. Divenne un precoce lettore dell’Imitazione di Cristo, aureo volumetto al quale si ispirò per tutta la vita. L’innata mitezza del giovane fu scambiata per inettitudine. Il primo a cadere nell’equivoco fu il futuro suocero, il conte Max di Starnberg. Alla figlia che stava raggiungendo il fidanzato per impalmarlo, il padre telegrafò: «Spatz, te lo sconsiglio. È un imbecille». Spatz, passerotto in tedesco, era l’affettuoso soprannome della ragazza che si infischiò dell’intromissione e convolò felice a nozze.
Gli sposi erano molto innamorati. Ma il destino, come accadrà sempre col Nostro, era in agguato. In contemporanea col matrimonio, gli morì il padre. Diciotto mesi dopo, perse il feudo e gran parte delle sue ricchezze. Cacciato da un pugno di avventurieri, fuggì con la sposa e qualche masserizia a bordo della Mouette battente bandiera francese. La corvetta lo depositò a Terracina. Di qui passò a Roma a Palazzo Farnese, proprietà di famiglia.
Il conte di Castro, questo il nome del Nostro, iniziò una serie di azioni per riavere i beni perduti, confidando nella Giustizia. Prima in quella degli uomini, poi in quella divina. Ma né l’una, né l’altra sembravano avere fretta di restituirgli il suo. Tanto è vero che la «parentesi» capitolina si prolungò la bellezza di nove anni, per concludersi, come vedremo, in modo imprevisto.
La disavventura minò i rapporti tra i due giovani. Si ritrovavano esuli e spaesati, lui di appena 25 anni, lei di 20. La diversità di caratteri fece il resto. La contessina era irrequieta e volitiva. Desiderosa di vendicarsi, tramava per tornare in possesso del feudo grassato. Vestita da uomo e in atteggiamento carbonaro si riuniva con altri cospiratori nel retrobottega della Farmacia Vagnozzi di Campo de’ Fiori, a due passi dal suo palazzo. Una volta libera da queste pericolose incombenze, montava a cavallo e percorreva a più non posso la campagna romana. Il conte invece si rinchiudeva progressivamente in se stesso. Scettico ogni giorno di più sulla possibilità politica di ripristinare la legalità violata, viveva appartato e in preghiera. Il giorno del suo compleanno, nel 1865, scrisse nel Diario: «Compio 29 anni, per grazia di Dio; e veggo quanti mali ho superato... Nel nascere privato di mia madre; nel prendere moglie privato di mio padre. Strappato alla mia terra, non mi resta che poco da vivere». Camperà, in realtà, altri 29 anni, ma era di un pessimismo innato.
Tra i due sposi, all’amore passionale si sostituì un affetto, sì tenace, ma da coniugi anziani. Il Nostro accampava una fimosi al prepuzio per giustificare la ritrosia nel talamo. Su insistenza della moglie, si rivolse a un chirurgo per farsene liberare. Ma gli effetti non furono un gran che. Lui continuò a immalinconirsi. Spatz a cavalcare. Finché un giorno le si affiancò un tenente della Guardia pontificia, il belga Armand de Lawayss, biondo e bello. Presto la contessina accusò malesseri che il marito interpretò come sintomi di consunzione. Eventualità che aveva sempre temuto da quando la sorella della moglie, l’imperatrice Elisabetta, si era ammalata dello stesso male, tanto da dover soggiornare a lungo nella solare isola di Madeira. Spatz non osò rivelare al marito la verità e, con la scusa di curarsi, rientrò in famiglia a Starnberg. Partorì in un convento di Orsoline, a Augsburg, due gemelle, Viola e Daisy, che furono date in affidamento a famiglie inglesi.
Il marito, all’oscuro di tutto, friggeva senza la sua Spatz al fianco, tanto più credendola malata. Lo stallo fu superato quando, su suggerimento di Elisabetta, la fedifraga gli scrisse rivelandogli il tradimento. Ma lo addolcì col dirgli, chissà perché, di avere avuto solo Daisy. La Storia non tramanda cosa abbia davvero provato il pover’uomo. Sta di fatto, che la perdonò all’istante telegrafandole: «Cara, ti aspetto». Nell’euforia del ritorno, la coppia ritrovò l’entusiasmo dei primi mesi e, dagli e dagli, concepì una figlia che nacque la notte di Natale del 1869. Tre mesi dopo, la piccina, Cristina Maria Pia, morì. Tra i due, tutto ripiombò come prima. Intanto al conte, che aveva superato indenne un attentato organizzato da Silvio Spaventa, deputato savoiardo, fu fatta una strana proposta: regnare al posto di Vittorio Emanuele su un’Italia federata con capitale Napoli, orfana degli spodestati Borboni. A fargliela, il siciliano Giovanni Nicotera, futuro ministro dell’Interno di Depretis.
Il Nostro non se la sentì.

Perse così l’ultima occasione di svolgere un ruolo politico e riprendersi il suo. Con la sposa, lasciò Roma per Parigi. Fu il definitivo esilio. Seguirono 25 anni di nulla, tra cacce, bagni termali e un’avvilita solitudine.
Chi era?

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