Un magistrato che accoglie le tesi di Hitler

Qualcuno ha già applicato l’aggettivo «revisionista» all’incredibile sentenza della procura di Monaco di Baviera che trasforma in «traditori» le migliaia di soldati italiani trucidati dai tedeschi a Cefalonia. Quei soldati comandati dal generale Antonio Gandin l’8 settembre 1943 ricevettero da Roma l’ordine di difendersi «da ogni eventuale aggressione di qualsiasi provenienza», e - sia pure dopo molte incertezze - lo fecero compiendo il loro dovere di soldati. Oggi, come allora, si può pensare, e lo pensiamo, il peggio possibile di Pietro Badoglio e di Vittorio Emanuele III: autori di un armistizio con gli angloamericani malcondotto e peggio annunciato, lasciarono l’intero Paese allo sbando in balìa dei tedeschi, quasi presumendo che costoro si ritirassero in buon ordine dall’Italia e trattassero le nostre truppe sparse sui vari fronti di guerra come forze neutrali. Per i tedeschi erano invece dei nuovi nemici, da trattare come tali, se non si fossero arresi.
Nell’isola greca di Cefalonia, però, fecero molto peggio. Quando il generale Gandin si arrese dopo una settimana di battaglia costata agli italiani 1500 caduti, i tedeschi passarono per le armi i suoi ufficiali e migliaia di soldati semplici: una vera mattanza senza altra ragione che l’odio e senza alcun rispetto per le più elementari convenzioni di guerra. Un crimine di guerra, appunto. Sul quale, però, le autorità italiane sono state per decenni colpevolmente deboli fino alla connivenza, con la scusa piuttosto risibile di non creare attriti all’interno della Nato in un periodo di guerra fredda. Soltanto nel 1980 il presidente della Repubblica Sandro Pertini ruppe quella che definì «la congiura del silenzio» su Cefalonia. E solo l’altro ieri, nel 2001, Carlo Azeglio Ciampi andò sull’isola a commemorare e onorare i caduti.
Nessun governo italiano, però, ha mai sentito il dovere di costituirsi parte civile nel procedimento in corso in Germania contro l’ex sottotenente Otmar Muhlhauser, oggi unico imputato della strage. Forse i nostri governi erano preoccupati di non turbare l’astratta fratellanza che unisce i Paesi dell’Unione Europea, per la quale si vuole che i popoli membri dimentichino una storia che invece sanguina ancora, come dimostrano la sentenza tedesca e lo sdegno che - c’è da augurarsi - solleverà in Italia. E, mentre Muhlhauser vive ancora tranquillo in Svevia, Marcella De Negri, figlia di un capitano fucilato, ha cercato giustizia costituendosi parte civile contro l’ex ufficiale tedesco: invano, perché secondo il magistrato bavarese Stern, gli italiani uccisi a Cefalonia erano «traditori». La disposizione della procura trova una sua aberrante giustificazione nel fatto che il codice tedesco prescrive dopo vent’anni il reato di omicidio, se non è aggravato da «vili motivi». «I soldati italiani - scrive il procuratore Stern - non erano prigionieri di guerra ai quali spettasse un trattamento riguardoso... Inizialmente erano alleati dei tedeschi, poi si sono trasformati in nemici combattenti diventando così dei “traditori”. Per usare il gergo militare, è come se parti delle truppe tedesche avessero disertato e si fossero schierate con il nemico».
Questa non è una sentenza «revisionista»: è una sentenza che fa proprie le tesi e l’ira di Hitler, per il quale dopo l’8 settembre tutti gli italiani erano traditori da trattare peggio di qualsiasi nemico. Ma è anche una sentenza priva di senso giuridico, poiché l’ordine ricevuto dalle truppe italiane di resistere a qualsiasi aggressione era stato dato da un legittimo capo di governo, legittimamente nominato dal capo dello Stato, ovvero il re: nessun codice di guerra che non fosse quello nazista può considerare quei nostri soldati «traditori».

Ora c’è solo da augurarsi che l’attuale governo italiano, in mancanza di guerra fredda e senza riguardi per la fratellanza europea, prenda posizione - ufficiale e fattiva - contro una sentenza che offende, in quei nostri morti, anche noi, italiani vivi e non disposti a accettare passivamente una versione nazista della nostra storia.

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