Con le «male parole» Berlusconi parla chiaro

Caro Granzotto, vorrei tornare un momento sul linguaggio di Berlusconi che tanto ha indignato il popolo della sinistra. Mi riferisco a quando si è lamentato di aver perso tempo in tv per «rispondere alle stronzate di Prodi». Il termine è pesante e volgare, su questo credo che non ci possono essere dubbi e un politico che ha ricoperto altissime cariche istituzionali dovrebbe astenersi dal ricorrervi. Avesse detto «scempiaggini» nessuno avrebbe avuto da ridire e non credo che il concetto esposto avrebbe avuto meno efficacia. Ma ricorrendo a quel linguaggio, Berlusconi ha prestato ancora una volta il fianco alle critiche e ai dileggi e questo, secondo me, è il suo tallone di Achille.


Be’, caro Dell’Orso, uno nasce Berlusconi o nasce Veltroni. Nemmeno col fucile alla schiena quest’ultimo direbbe, non sia mai con rozza schiettezza, pane al pane e vino al vino. Veltroni, il mago dell’eufemismo, è tutto un tercio pelo, un velluto; è tutta una crema pasticciera: le sue non sono parole, sono bigné. Il Cavaliere no: se ce la mettesse tutta, se si concentrasse sarebbe capacissimo di veltroneggiare, ovvero di vendere aria fritta sulla pubblica piazza. Ma il suo temperamento, la sua natura meneghina - se sta mai coi man in man, recita «O mia bela Madunina» - lo porta ad esser franco e, nell’esser franco, anche genuino. Io credo proprio che quel «stronzate» non gli sia scappato di bocca: perché, vede, «scempiaggine» non è, come lei suggerisce, preciso sinonimo di «stronzate». Certo, riferendosi alle cose che dice Romano Prodi «scempiaggini» va già benone. Ma non rendono appieno l’idea: in fondo una scempiaggine la può fare (o dire) anche un bambino. La può fare (o dire) anche un genio. Nella sua Canzone di Legnano Giosué Carducci, che proprio genio non fu ma fa lo stesso, non fece calare il Sole dietro il Resegone (e Gadda, sbertucciandolo: «Il sole del Sudamerica incontrò il poeta Carducci e si felicitò seco lui grandemente: “Sei l’unico che mi abbia capito!”, disse»)? No, no, definendole «stronzate» e non altrimenti il Cavaliere ha voluto consapevolmente dare una definizione potremmo dire scientifica, sicuramente rigorosa, del vacuo cicaleccio prodiano. Il sostantivo sta infatti per «pensiero, comportamento, atto o affermazione sciocca, dissennata o - qui ci siamo - che rivela pochezza intellettuale o morale» (Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, volume ventesimo, pagina 391).
Ora lei osserva, caro Dell’Orso, che quella parola è una mala parola e che nel rispetto della decenza verbale non sta bene pronunciarla. Vero. Non sta bene. Ma ci sono male parole inutili, fine a se stesse, che finiscono per essere un semplice intercalare (lei m’intende, no?) e male parole con una incisività e forza espressiva così efficace da risultare insostituibili: l’espressione rivolta da Cambronne all’inglese Maitland che, a Waterloo, gli intimava la resa - espressione che Victor Hugo, il quale se l’era inventata, sissignori, inventata, definì «eschiliana» - poteva certo essere sostituita con un più educato: «Andate a quel paese!», con un: «Non se ne parla nemmeno» o con il classico: «La vecchia Guardia non si arrende!». Ma non ne avrebbero avuto la fulminante efficacia.

Senza aggiungere che, pronunciandola, il barone Jacques-Etienne Cambronne non sarebbe passato alla storia. Con questo non voglio dire che il Cavaliere passerà alla storia per aver così icasticamente liquidato la verbosa retorica prodiana, però, chapeau!

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