Ogni sera, «grazie all’orazione a viso aperto» che la lascia distrutta alla fine di ogni replica, Fanny Ardant registra il tutto esaurito al Théatre de l’Atelier che ha deciso di programmare ad oltranza la sua confessione-spettacolo L’année de la pensée magique. Totalmente sua, come dicono i critici, anche se il testo originale di Joan Didier, edito in Italia dal Saggiatore, non parla della sua vita intima, ma della tragedia personale dell’autrice che, dopo aver assistito alla scomparsa del marito, cominciò a interrogarsi sulla scadenza indifferibile della morte. Un tema abusato secondo Alain Resnais che solo l’ironia dell’interprete salverebbe dalle pastoie della seduta psicanalitica. Ma mademoiselle Ardant, una volta tanto non è d’accordo, col regista che dopo averla diretta in Mélo e L’amour à mort è diventato il suo guru.
Come mai? Si è dimenticata di Alain che, subito dopo averla vista, le affidò nella «Vita è un romanzo» il ruolo di una sacerdotessa sui generis musa e ispiratrice del «tempio della felicità», l’istituzione che promette la vita eterna?
«Certo che no, come potrei scordarmene? Ma in tanti, e non solo lui, si meravigliano di un fatto banale. Tu che sei sempre così gioiosa, vengono a dirmi, come mai ti impegni in un dibattito che mette paura solo a pensarci? Non sanno che morire e vivere sono sinonimi, come ho scoperto io».
Da quando, scusi?
«Dal giorno in cui Josée Dayan mi scritturò nel film televisivo dedicato a Balzac che avete visto anche in Italia».
Questa è una sorpresa: non riesco a capacitarmene...
«Ci pensi bene. Si ricorda o no che io, in quel film, sono Evelyne Hanska, la contessa polacca che, dopo vent’anni di relazione, sposa Balzac tre mesi prima che muoia? Nelle sue lettere dichiara senza mezzi termini che la malattia, la debolezza, la fine dell’uomo amato sono paragonabili a un continuo stato d’orgasmo. Questo non le dice niente?».
Che tutto è possibile, ma anche terribile.
«Già. Anch’io la pensavo come lei. Durante la lavorazione, mi sentivo a disagio, non ero affatto convinta di ciò che mi ripeteva la Dayan. Solo quando - un anno fa - non solo ho interpretato ma anche diretto Chimères absentes, il mio primo film da regista, ho compreso che la morte non è che un episodio».
Che soggetto triste! Non possiamo cambiare argomento?
«Ma quel piccolo cortometraggio di dieci minuti è un inno alla vita! Sonietchka, la bambina rom che viene discriminata per le sue origini prima che la maestra di musica non la sproni a inserirsi tra i suoi coetanei, vive nelle tenebre per poi scoprire la luce».
Quel che mi dice mi spinge a chiederle se non è tentata dal misticismo...
«Le rispondo di sì, ma con una eccezione».
Vuol dirmela per favore?
«Perché no? Quando sono in scena, vivo una sorta di rivelazione. Che scompare davanti alla macchina da presa».
Come mai?
«Perché sul palcoscenico sei solo e questo sul set non accade. Il cinema è un lavoro d’équipe e c’è sempre qualcuno davanti e dietro di te: è un modo di condividere la realtà che non ti lascia troppo tempo per pensare».
Torniamo all’Italia, vuole? L’ultima volta che ci siamo visti ricordo che era tentata da una proposta di Antonio Calenda, il regista dello Stabile di Trieste che...
«Che mi voleva in Antonio e Cleopatra e in italiano per giunta! Anche se conosco la vostra lingua, avrei dovuto vivere almeno sei mesi lontano dalle mie figlie per correggere il mio accento straniero. Due anni fa non potevo permettermelo».
E in futuro?
«Mi auguro di riuscirci. Dopo aver lavorato con tanti colleghi italiani, sarei lieta di parlare al pubblico con la mia voce, senza la mediazione del doppiaggio. Un desiderio che mi accomuna a Depardieu, il mio partner preferito».
Non ha mai confessato cosa vi unisce, sono curioso.
«Un fatto essenziale: l’istinto.
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