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La metamorfosi del ct

Che fine ha fatto il tecnico degli ultimi due anni? L’arrivo in Polonia ha cambiato completamente Prandelli: squadra difensiva e nascosta, azzurri subissati di lavoro

La metamorfosi del ct

Cracovia Che fine ha fatto il nostro caro, amato, giovane, simpatico ct Cesare Prandelli? Di quel giovanotto, dalla faccia pulitissima e dal sorriso malinconico per le prove crudeli impostegli dalla vita, dalle idee di calcio sane e moderne, si son perse le tracce qui a Cracovia, a poche ore dal debutto nel girone europeo al cospetto della Spagna. È vero, le tre sconfitte di fila (contro Stati Uniti, Uruguay e Russia, la più recente e anche la più dura da mandare giù) hanno incrinato molte certezze maturate con la qualificazione e fatto evaporare quel clima idilliaco costruito nei due precedenti anni, eppure sono tanti, addirittura troppi, i segnali di un cambiamento così repentino da risultare indecifrabile. Per esempio nel disegno calcistico, di conio nettamente offensivo. Al primo temporale, ha aperto un ombrellone enorme e portato tutti sotto il tetto a cercare riparo, riabbracciando l'idea della difesa a 3 (che vuol dire 5 azzurri impegnati nelle operazioni di sicurezza) ignorata a dispetto dell'orientamento del campionato (Juve e Napoli carrozzate così da Conte e Mazzarri). Non solo. Ma è ancor più clamoroso il ripensamento se poi ha coinciso con la perdita secca del miglior interprete del sistema (Barzagli) e con la scelta, ardita, di arretrare De Rossi in garitta ipotizzando persino l'utilizzo di Ogbonna al posto del preoccupato Bonucci (ma giocherà lo juventino). Più giustificata la tentazione di fare spazio alla gamba sciolta di Giaccherini (garantito il suo utilizzo) sulla corsia mancina visto che Balzaretti (rimpiazzo dell'«avvisato» Criscito) ha tradito una precaria condizione fisica.
Forse non è solo una questione di esperienza o di personalità, come taluni critici cominciano a sostenere. Marcello Lippi, che a Duisburg non sbagliò una sola mossa, quattro anni dopo, in Sudafrica, infilò strade sbagliate una dopo l'altra. Eppure aveva la medaglia sul petto: anzi fu proprio quel ricordo a suggerirgli scelte romantiche nel 2010. Prandellino, che è per caratteristiche un vero insegnante di calcio più che un selezionatore e ancor meno un capo-ciurma, è al primo vero esame da ct. Legittimo che mostri qualche ondeggiamento dinanzi alle prime difficoltà.
Sono cambiati, nel volgere di qualche settimana, i suoi metodi di allenamento oltre che i carichi di lavoro. Pensate ieri mattina, appuntamento allo stadio Cracovia alle 11 del mattino: il ct ha tenuto tutti sotto pressione per 2 ore e 15 minuti, preceduti da 30 minuti svolti in palestra. Spremuto come un limone il gruppo dei 24 (debutto di Astori abbronzatissimo), tanto da annullare il previsto raddoppio pomeridiano. Non solo. Ma anche la scelta politica, molto apprezzata, di «aprire» la Nazionale al pubblico e ai cronisti, è stata corretta: appena messo piede in Polonia, son partite nuove disposizioni, allenamenti a porte chiuse, sia ieri che oggi, non per fare il misterioso ma per curare nel dettaglio schemi di gioco, calci di punizione sottratti ai giornalisti stranieri, spagnoli in particolare arrivati per l'occasione. Anche nei rapporti diplomatici interni alla federcalcio, si è favoleggiato di un Prandelli isolato, addirittura in rotta con Abete, per via della frase infelice («se vogliono, non andiamo più all'europeo») pronunciata la mattina della disastrosa amichevole a Zurigo con la Russia. «Litigare con Abete è impossibile» fanno sapere dalla delegazione federale per smentire il clima elettrico tra i due. Piuttosto sono stati gli stage promessi e non mantenuti e l'arrivo in ritardo degli azzurri a provocare, adesso, i rimpianti di Prandelli cui fu consigliato di raccomandarsi presso i colleghi allenatori per ottenere collaborazione. Di fatto, l'unica concessione in tal senso fu cancellata dalla morte di Morosini.
Da ultimo, è stravagante rileggere le idee moderne di Prandelli, tutte incentrate sulle famose tre "g", gioventù, gioco e genio, attraverso le parole di Thiago Motta, ultimo dei «rieccoli», riemersi all'onore della cronaca da qualche giorno per cementare la trincea davanti a Buffon. «Gioco bello o non bello conta poco, conta vincere» è la nuova filosofia di vita e di calcio che si affaccia nelle strade di Cracovia.

Persino il rapporto spietato sul conto di Balotelli («anche qui, in campo, ci fa arrabbiare ma l'importante è che ci aiuti e faccia la differenza e che abbia responsabilità» la testimonianza del parigino) appare in netto contrasto con il famoso codice etico pirandelliano. Che fine ha fatto il nostro caro, amato, giovane ct?

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