Politica

«Mi dimetto se l’Islam dà un segnale di pace»

Il politico bergamasco, che si è distinto per dichiarazioni sopra le righe: «Posso anche umiliarmi, ma un secondo dopo aver capito che questo è utile»

Adalberto Signore

Una vita vissuta pericolosamente. Politicamente, s'intende. Ma ieri notte la prima retromarcia, il primo accenno di compromesso. Travolto dalla bufera politica, dopo una lunga serie di no comment, Roberto Calderoli ha detto: «Se per arrivare al dialogo tra il mondo occidentale e il mondo islamico e per mettere da parte le armi, le bombe e il terrorismo, è necessario che io mi dimetta, che chieda scusa e perfino che mi umili, io mi dimetto. Lo farò un secondo dopo aver avuto dal mondo islamico un segnale che questo mio atto possa essere utile».
Il dentista bergamasco - come il nonno, il padre, i quattro zii e i tre fratelli - nipote di uno dei primi autonomisti che la Lombardia ricordi («Bergamo nazione, tutto il resto è meridione», lo slogan di nonno Guido, fondatore del Mab a inizio anni Cinquanta) è una sintesi complessa. Fatta di un carattere aggressivo e, a volte, di una rudezza inarrivabile. Ma pure timido, come lo racconta chi lo conosce bene, e pacato al punto di portare in porto la complessa trattativa sulla devoluzione nei mesi in cui sia An sia l'Udc sbraitavano a ogni piè sospinto contro «la Lega che vuole spaccare il Paese». Ora, mezzo secolo dopo l'ingresso di nonno Guido al Consiglio comunale di Bergamo, passato un ventennio dall'incontro con Bossi («ci siamo conosciuti a una festa di Carnevale a metà anni Ottanta»), Calderoli ha forse fatto quel passo in più che nessuno è disposto a perdonargli. Né il Senatùr (che negli ultimi tempi aveva un po' nicchiato sulle trattative con l'Mpa di Raffaele Lombardo), né Silvio Berlusconi (con cui da due anni a questa parte ha costruito un rapporto non solo di stima ma anche di amicizia). «Mutate mutanda», come recita il titolo della sua indimenticabile biografia ispirata al latino «mutatis mutandis».
E pensare che il cinquantenne Calderoli è partito dal basso, dalle feste leghiste nelle valli della Bergamasca quando il Carroccio era per i più ancor un oggetto misterioso. Ha passato le sue nottate a parlare con i militanti, a ridere e scherzare. Ma pure a far politica in prima persona, fino ad arrivare alla presidenza della Lega Lombarda, la più prestigiosa, già nel 1993. Poi è venuto il resto. Dalla presidenza è passato alla più autorevole segreteria nazionale (in Lega ogni regione è considerata alla stregua di una nazione), al Parlamento, alla vicepresidenza del Senato e, infine, al ministero delle Riforme. Tutto per meriti conquistati sul campo, come dimostra il suo legame del tutto particolare con la base. Basti pensare che all'ultima riunione sul prato di Pontida, già ministro e già famoso, Calderoli è stato l'unico - jeans tagliati al ginocchio e mocassini - a presidiare fino a notte fonda la pattuglia di militanti che in tenda aspettava l'alba dell'atteso ritorno del Senatùr. È rimasto lì fino alle due di notte, a coccolare affettuosamente - ricambiato - i tanti sostenitori che sempre lo hanno incoraggiato ad andare avanti. Sugli immigrati, sulle unioni omosessuali e, ovviamente, sull'Islam.
E lui non gli ha mai delusi. Già, perché Calderoli, appassionato di enduro negli anni Settanta e poi di rally, ha sempre fatto di questo sport una sorta di filosofia di vita. Almeno in politica. E a smettere di correre non ci ha mai pensato. Come allora continua a macinare, non chilometri ma parole che arrivano, in quantità industriali, nei fax delle redazioni e raramente finiscono nel cestino. Uno stakanovista della parola, non privo di estro artistico, che per anni ha concepito dichiarazioni roboanti, sarcastiche, sferzanti, talvolta feroci, che rispecchiavano alla perfezione l'immagine di «duro» che si è portato dietro sin dall'inizio della sua avventura nella Lega.
Solo alla fine degli anni Novanta è cominciata una lenta virata verso un alveo, per così dire, più istituzionale. L'archivio è sterminato: le accuse ai «parassiti meridionali»; la Padania trasformata in «ricettacolo di culattoni»; «il mio maialino che non vede l'ora di far la pipì sulla moschea»; «i giudici lazzaroni, che per fare il pm bisogna avere il gusto di spiare dal buco della serratura». E ancora: la castrazione chimica per gli stupratori, la taglia messa a disposizione dalla Lega sugli assassini di un benzinaio in Lombardia, i Pacs come «assurda pretesa di privilegi da parte dei culattoni» e, ultima in ordine di tempo, la maglietta sull'Islam. Conseguenze comprese.
Ancora ieri notte affidava alle agenzie un dichiarazione alquanto criptica sulla richiesta di dimissioni fortemente volute da Gianfranco Fini e vistate da Berlusconi. «Non è un problema dei morti o del governo italiano, qui c'è di mezzo l'Occidente». E pensare che queste esuberanze giovanili, questi eccessi d'agonismo verbale, negli ultimi mesi aveva deciso di archiviarli.

Salvo di tanto in tanto ricascarci.

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