Mikhalkov: macché Stalin, io elogio i soldati russi

Con la sorpresa di un documentario premiato, è la prima volta, con il Grand prix de la Semaine de la Critique, il 63° festival di Cannes si avvia alla sua conclusione e a dimenticare i tanti casi politici - da Sabina Guzzanti che ha attaccato Berlusconi a Kean Loach che ha fatto lo stesso con Cameron passando per Woody Allen che ha auspicato la dittatura di Obama e Oliver Stone che aveva sparato a zero sulle grandi banche - che ne hanno marcato il cammino. E in attesa di conoscere i vincitori dei riconoscimenti più importanti, che saranno consegnati stasera nella cerimonia che in programma dalle 19.30 (la passerella e la cerimonia saranno seguite in diretta da Sky Uno dalle 18.55), con la giuria presieduta da Tim Burton riunita in una villa vicino Cannes, gli addetti ai lavori si sbilanciano nei pronostici, sempre divisi fra Another Year di Mike Leight e Des hommes et des dieux, di Xavier Beauvois, che ieri ha vinto il premio della giuria ecumenica. Altro candidato forte alla Palma d’oro è Biutiful di Alejandro Gonzalez Inarritu, il favorito della vigilia, autore di un film cupo e visionario che ha in Javier Bardem il suo mattatore assoluto. Poche quindi, a logica, le speranze per Elio Germano, pur apprezzato protagonista di La nostra vita di Daniele Luchetti.
Ma ieri è stata soprattutto la giornata di Nikita Mikhalkov, già due volte vincitore a Cannes, che ha portato sulla Croisette il suo Esodo - Il sole ingannatore 2, preceduto da abbondanti polemiche sul ruolo tirannico del regista sulla cinematografia nazionale in quanto presidente dell’Unione dei cineasti. Oltre che sul senso politico del film, fra l’altro la più costosa pellicola russa di sempre, stroncata dalla critica e mezzo flop al botteghino. All’anteprima moscovita del 9 maggio, infatti, Il sole ingannatore 2 - seguito dell’opera con cui Mikhalkov aveva vinto nel ’94 a Cannes il premio speciale della giuria e l’anno dopo a Los Angeles l’Oscar - era apparso a molti un po’ troppo elegiaco nei confronti di Stalin. E ieri il regista ha voluto rispondere sia sull’opera, ambientata sul fronte russo-tedesco della Seconda guerra mondiale, sia sulle accuse che lo riguardano in quanto satrapo del cinema russo. «Non è un film pro o contro Stalin. È un film d’amore tra un padre e una figlia. E più che la verità storica, mi interessava cogliere lo spirito del periodo». Quanto ai quasi novanta fra cineasti e critici russi che hanno firmato l’appello contro di lui e i suoi metodi, Mikhalkov ha detto: «Molti di loro non abitano da anni in Russia e non ne conoscono il contesto. Penso a Otar Ioseliani, e ricordo anche che è stato un membro del Soviet. Altri non hanno pagato le quote dell’Unione. Insomma, andando a stringere è firmato da quattro gatti. E poi per accusare ci voglio i fatti». Ancora sul film, il regista (e protagonista) ha spiegato, annunciando che fra sei anni girerà la terza parte della saga, che «volevo parlare dell’alienazione e della depravazione della guerra, delle sofferenze dei soldati russi. E delle condizioni in cui la guerra fu poi vinta, perché dimenticare il prezzo che è stato pagato per sconfiggere il nemico sarebbe criminale».
E sull’eterna diatriba su film d’autore/film commerciali ha detto: «A me il cinema d’autore piace e lo faccio, è come un’ostrica ma nessuno può vivere mangiando solo ostriche, ci vuole anche pane e salame».


Tornando ai premi, come si diceva il Grand Prix della Semaine internationale de la critique è andato ad Armadillo, documentario girato dal giovane regista danese Janus Metz nella base della forza internazionale nella provincia afgana di Helmand.

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