Voi dovete insegnare ai vostri figli che il terreno sotto i loro piedi è la cenere dei nostri antenati. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi», ricordava il capo duwamish Capriolo Zoppo al presidente dei neonati Stati Uniti d'America . Ma la stessa cosa poteva dirla anche così: «Dovete sapere, voi che siete uno che decide del futuro della gente, che la natura va rispettata e protetta, perché altrimenti si vendica».
Parafrasi quasi perfetta, salvo che qui non siamo nelle praterie americane popolate di pellirosse e bisonti, ma nella nostra prosaica Brianza contadina.
Chi scrive è il giornalista e autore Emilio Magni e chi parla è Enrico Conti, il «resgiù» (si chiamava così il capofamiglia nei vecchi nuclei patriarcali) protagonista di «Richén principe della zolla», il suo ultimo libro appena uscito per Mursia. Paese che vai, cultura che trovi, dicono.
Quel che è certo è che ci sono valori che non conoscono confini e latitudini, e per fortuna resta sempre qualcuno che lavora per trasmetterli alle generazioni che verranno. Rispettare la natura, rispettare la terra significa dare significati al proprio passato e preparare il futuro, «e chi può rispettarla - continua il discorso del resgiù - sono quelli che la conoscono bene, ovvero noi contadini che tramandiamo un sapere che viene da lontano».
Un «principe» contadino, dunque, è il personaggio centrale di quello che lo scrittore Emilio Magni - che pure ha al suo attivo diversi lavori soprattutto dialettali - definisce senza mezzi termini un'«opera d'esordio».
Si tratta, in effetti, del primo romanzo con tutti i crismi per lo scrittore erbese, che continua nel suo impegno di raccontare un mondo lontano, ormai oggi quasi dimenticato e cancellato in pochi anni da un'industrializzazione frenetica e spesso pagata a caro prezzo. Ambientato in una campagna mitica e a tratti pavesiana, un po' a mezzo tra l'epopea padana alla Bacchelli e il tratteggio mordace di un Gianni Brera (che non a caso parlava di «nobiltà della zolla»), il romanzo si muove sulle orme di una tipica famiglia patriarcale brianzola.
Il respiro è ampio, l'arco cronologico altrettanto: si va dal dopo unità d'Italia agli albori del «boom» economico, filo rosso la vita di Conti-Richén, figura ascetica, sapiente ed illuminata, nato nel 1868 e morto negli anni Cinquanta.
Quasi un secolo di dura vita nella cascina, nella stalla, nei campi spesso avari, costellato di amori, odi, trasgressioni, drammi personali (come quando un figlio gli scompare nella Grande Guerra, o un altro è preda delle febbri) e collettivi, come la mano pesante dei «padroni», avidi e ottusi. Gli ultimi cent'anni di «vita dei campi», a contatto con la grande madre terra, fino al drammatico capitolo degli espropri e dell'accaparramento selvaggio che, proprio come è avvenuto di là dall'Atlantico due secoli fa, mettono fine a un mondo per fare posto a un altro forse più ricco, ma non per forza più saggio.
Ciononostante Richén, all'epilogo di una lunga esistenza, se ne va sereno e convinto delle sue idee.
La domanda è aperta e critica: cercare di rispondere significa illuminare un angolo oscuro del nostro presente.
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