Mira Nair: «Ecco l’eros delle nozze combinate»

Cinzia Romani

da Roma

Dopo Hollywood, Bollywood. Finiti i fasti Usa, ieri una star indiana, la regista Mira Nair, ha illuminato il cammino della Festa. «Da cinque anni il mondo occidentale parla di Bollywood, ma l’India fa film da un secolo», precisa l’autrice de La fiera della vanità, ricca versione del classico Vanity Fair, con Reese Witherspoon. Un Leone d’oro alla Mostra veneziana (per Matrimonio indiano); un Golden Globe (col telefilm Hysterical Blindness, dove recitavano Uma Thurman e Geena Rowland), uno Harry Potter n. 5 scansato perché fuori dalle sue corde, un erigendo film sui Beatles nel loro periodo indiano Rishikesh (con finanziamento anglo-canadese), Mira Nair ha varie medaglie sul petto. Guadagnate girando film sul tema a lei caro: quello dell’identità. L’idea di adattare il bestseller della romanziera Jhumpa Lahiri, L’omonimo, facendone la cinesaga de Il destino nel nome (la Fox lo distribuirà in primavera) non le è venuta in un momento qualsiasi. «Avevo sepolto mia suocera, di origine africana, a Manhattan, nel gelo dell’inverno. Morta tra le mie braccia, per un errore dei medici ed ero triste: perché morire via dalle proprie radici?», racconta Mira, avvolta in un sari verde, gli occhi lustri per il kajal, ricordando come ci abbia messo tre anni, per capire come rimpannucciarsi,d’inverno, a New York, dove vive dagli anni Settanta. Così nasce il toccante racconto del matrimonio combinato tra Ashoke e Ashima, che lasciano la soffocante Calcutta per approdare nella Grande mela, ignoti l’uno all’altra. «Amo esplorare il lato erotico della relazione tra estranei, mentre si conoscono», spiega Mira, un marito ugandese («con trisavoli indiani») e un figlio maschio, che avrebbe voluto chiamare Maisha («inizio della vita» in suhaili).
Gli sposi forzati conosceranno una svolta alla nascita del loro bambino, battezzato Gogol (come l’autore russo) e da subito alle prese con problemi identitari. Ambientato tra New York e Calcutta, città che la Nair conosce bene, Il destino nel nome (Namesake) copre un arco di due generazioni e abbraccia due culture contrastanti, come si vede quando, per esempio, la ragazza di Gogol si presenta vestita di nero a un funerale bengalese: in India, il colore del lutto è il bianco. E mentre Calcutta, colorata di rosa e arancio, rappresenta il caos caldo della vita, New York, con i suoi grattacieli grigi, rimanda all’aridità della vita razionale. «Fare un film è un atto politico», dichiara Mira, fondatrice, in Uganda, di un laboratorio di regia, con 24 borse di studio per aspiranti registi del Kenia, del Rwuanda e della Tanzania. Per questo non farà un’antologia sui Beatles, «alla Abbey Road», ma «un’indagine vibrante sull’ispirazione artistica, magari con Mia Farrow, Ravi Shankar, Donovan».

Nell’immediato, avrebbe anche dovuto girare un film su Sonia Gandhi, «una donna che mi intriga molto», ricorda la regista, che ha però rinunciato al progetto, dopo il divieto delle autorità indiane, (con le quali lei non ha buoni rapporti): la protagonista avrebbe dovuto essere Monica Bellucci, troppo bella per essere premier. «Praticando lo yoga, ho imparato a vivere nel presente: la nostalgia, il rimpianto, sono cose per giovani».

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