Il mistero buffo della polemica sulle insegne incomprensibili

R ecentemente alla fine del pranzo consumato in un ristorante ho chiesto ad uno dei camerieri, che era un immigrato, di portarmi una macedonia. Ma mi sono visto servire un gelato. Ho cercato di spiegare, ma è stato inutile ed alla fine ho desistito. Non mi sembra sbagliato, quindi, richiedere un test di italiano agli immigrati che vogliano aprire un negozio. Lo propone la Lega in un emendamento al decreto legge sugli incentivi, che ha sollevato molte polemiche sui giornali. Non meno opportuno mi sembra prescrivere per le insegne dei negozi l’uso della lingua italiana. Anche questo viene richiesto dalla Lega e non mi sembra né «autarchico», né «demagogico», come molti si sono affrettati a dire. Le insegne dei negozi, e, aggiungo, la cartellonistica pubblicitaria si rivolgono alla massa dei cittadini ed hanno un impatto visivo superiore a quello degli altri mezzi di comunicazione. Piuttosto il problema è più generale e non riguarda soltanto le lingue extracomunitarie.
Nelle insegne dei negozi, infatti, troviamo un’alluvione di pseudoanglicismi: espressioni mosaico, costruite meccanicamente, come ad esempio house service per home delivery. Sembra di trovarsi in un Paese coloniale dove per comunicare ci si aggrappa a pezzi vaganti di lingua ed il risultato è quello di cadere nel comico involontario, come accade con Pizza center, Baby parking, Free hair per un parrucchiere - che non sta ad indicare, naturalmente, la gratuità del taglio -, Green shopping per un negozio di fiori, e via dicendo. La tendenza, come al solito, viene dall’alto, dove usa camuffare con un inglese inutile - sportswear - o falso - common rail - qualunque prodotto, come se non esistessero parole italiane o queste non fossero più capaci di veicolare un messaggio pubblicitario. Daremo un nome anglosassone, vero o presunto, anche a prodotti come le calzature, o la pasta, per cui siamo noti in tutto il mondo? Se mettiamo da parte la nostra lingua per il made in Italy, corriamo il rischio di non trovarla più neppure nelle «istruzioni per l’uso» degli elettrodomestici, dove è già minacciata dall’olandese e addirittura dal greco.
Esiste in proposito un volumetto di Marco Andreolini e Claudia Racchetti uscito nel 1985 con il titolo Riconoscimento e tutela del diritto dei consumatori e dei cittadini all'informazione in lingua italiana (Pirola, Milano). In questo libro sono raccolte le pochissime norme che prescrivono l’uso della lingua italiana, a scopo di garanzia e di sicurezza, nel commercio, e se ne consiglia la lettura a chiunque abbia a cuore il problema. Non si tratta di un patriottismo di bandiera. Ci sono seri motivi per preferire termini italiani nella denominazione dei prodotti e nella loro presentazione. Il consumatore deve sapere ciò che acquista senza essere fuorviato da un termine o da un'espressione che nove volte su dieci non capisce anche perchè, nove volte su dieci, l’inglese usato è del tutto inventato e non corrisponde a nessun inglese registrato sui vocabolari.


«Si potrebbe riattivare la legge, caduta in desuetudine, ma non credo cancellata, secondo cui le insegne e le indicazioni pubblicitarie con parole straniere debbono sempre portare anche la parola italiana», suggeriva Ignazio Baldelli sin dagli anni Ottanta. Era una minima proposta per salvaguardare le nostre tradizioni, artigianali, culinarie, ecc., che stanno a cuore non soltanto alla Lega, ma a tutti gli italiani.

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