Miti e profezie torna in versi la civiltà Maya

Un saggio ripropone i canti lirici del popolo precolombiano

«Questo è il racconto di quando tutto era fermo, tutto calmo, in silenzio, tutto senza movimento, tranquillo, e la distesa del cielo era vuota»: è la storia della nascita del mondo secondo il Popol Vuh, libro sacro di una grande civiltà fiorita nel Mesoamerica, conosciuto in Europa come La Bibbia Maya. Un poema che narra in versi per noi ancora spesso enigmatici la genesi della luce e della terra dalla notte indifferenziata, cielo e mare, dove solo gli dei creatori e gli Antenati erano circondati di luce. La terra, gli animali, gli uomini, l’incessante relazione tra il divino e il mondo che ne fu generato. In quel libro, come in poche altre opere, i Maya preservavano il patrimonio della loro cultura, la loro religione che i conquistatori spagnoli scientificamente volevano cancellare. L’atto finale della conquista fu la presa dell’ultima città rimasta indipendente, Tyasal, avvenuta nel 1697 ad opera del governatore spagnolo dello Yucatan, Martin de Ursua, che con i suoi uomini fece irruzione in tutti i templi e le case private, frantumando ogni idolo che vi si trovava. Ma la distruzione delle pietre e delle frasi in esse impresse non riuscì a cancellare lo spirito dell’antica civiltà, preservato nelle opere poetiche, scritte su pagine vegetali e in seguito tradotte in latino e spagnolo da esponenti di rilievo degli stessi conquistatori. Il patrimonio fu tutelato da uomini che appartenevano alla stessa religione nel cui nome, impropriamente pronunciato, come spesso accade, avveniva il genocidio. La figura del domenicano Bartolomeo de Las Casas è celebre per la difesa degli Indios e della loro dignità, della loro lingua, e cultura.
Le opere di poesie salvavano il passato, la memoria e la sua proiezione nel presente, così come la poesia dei Maya, similmente ad altre soprattutto orali, ma con forza particolare, era scaturita dal rito e dal senso del sacro, e dalla continua interrelazione con il mondo dei trapassati: medium tra morte e vita, tra umano e divino. Per salvare la memoria del proprio mondo questa poesia quasi del tutto orale, divenne scritta. Non mancava letteratura in quella civiltà, le parole scritte, nel campo della liturgia, della divinazione, della legge, rare ma esemplari: e questo fatto le inscrive, se non nel corpus della poesia, in quelle pietre miliari su cui il poeta, sempre e ovunque, si sofferma, per tradurne l’enigma nel divenire della vita, il suo oggetto.
Uno studio di grande interesse, e, cosa non comune, di notevole chiarezza e leggibilità anche per il profano, affronta ora il problema della poesia Maya nella sua specificità, nella sua relazione inscindibile con le radici e i fondamenti di una civiltà, ma anche la sua proiezione dinamica: conservare, in poesia, non significa solo custodire, ma anche rilanciare, favorire nuove fioriture, secondo l’impulso di quella che il grande inglese Shelley definiva «una memoria che guarda avanti». Voci e canti della civiltà Maya, di Michela Craveri, edito da Jaca Book (pagg. 224, euro 20) affronta, in modo esauriente e affascinante, i principali testi poetici di quel mondo, dai miti sulla creazione dell’universo e dell'uomo ai canti lirici, i testi profetici, le narrazioni storiche e, soprattutto l’incessante relazione tra poesia e teatro, ossia rappresentazione comunitaria e rituale.

L’editore Jaca Book è la massima autorità per la cultura Maya e antico americana in genere: il suo imponente Corpus precolombiano affronta tutte le civiltà del continente, è stato tradotto in tutto il mondo e brilla, tradotto in spagnolo, nelle librerie di quella che fu la civiltà dei Maya.

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