«Altro che rischio Tbc escluso Io, poliziotto, sono contagiato»

Un agente schierato in prima linea nell'operazione Mare nostrum smentisce il Viminale: «Ora sono costretto a continue cure»

RomaCon gli immigrati sbarca in Italia anche la Tbc? Prima a giugno, poi ad agosto, infine pochi giorni fa, a settembre: negli ultimi mesi gli allarmi di un contagio da tubercolosi tra i poliziotti impegnati nell'operazione «Mare nostrum» si sono moltiplicati. Li hanno lanciati i sindacati di polizia, denunciando le condizioni precarie in cui gli agenti sono costretti a lavorare, e li hanno cavalcati anche Beppe Grillo e i suoi. Salvo essere, nel giro di poche ore, smentiti seccamente dal dipartimento di pubblica sicurezza o dalle aziende sanitarie locali. Sicurissimi nell'affermare che l'emergenza non esiste.

Qualcosa, però, non torna. Perché ieri sera a denunciare un caso di contagio da Tbc tra le forze dell'ordine è stato direttamente un poliziotto. La sua storia è stata raccontata su Raidue sul programma di Nicola Porro «Virus - il contagio delle idee». Francesca Parisella ha infatti intervistato l'operatore di polizia, che ha voluto mantenere l'anonimato ma ha dato testimonianza della sua odissea, spiegando di collaborare all'operazione «Mare nostrum» e di avere con i migranti «un contatto più che ravvicinato, diretto». L'agente racconta che tra i clandestini sbarcati in Italia con cui è entrato in contatto «è stato accertato un caso di tubercolosi bacillifera», ossia «lo stadio nel quale una persona infetta può contagiare le persone che gli stanno vicino». Così, prosegue il poliziotto, lui e altri colleghi sono stati sottoposti al test di Mantoux, per «verificare se potesse esserci stato o meno un contagio». «Nel mio caso - spiega l'agente - questo è stato accertato».

Fino a ora, tra le già citate smentite a raffica seguite alle varie denunce di contagio, la direzione centrale di sanità del dipartimento di pubblica sicurezza in agosto aveva smontato la rilevanza di quel test, affermando che la positività al Mantoux «non è assolutamente indice di malattia ma attesta solo un pregresso contatto con il microrganismo che può essere avvenuto anche molti anni fa». Ma l'agente di polizia che parla alle telecamere di Virus non sembra così ottimista, e spiega a quali cure si sta sottoponendo dopo l'esito positivo alla prova di screening. «La profilassi che sto facendo - dice l'uomo - ha un periodo minimo di sei mesi. Terminata la chemioprofilassi l'infezione tubercolare, nella auspicata ipotesi che sia rimasta nella sua fase latente, è un'infezione permanente». Insomma, «il batterio stanzierà nell'organismo per tutta la vita», e «per tutta la vita posso ammalarmi di tubercolosi».

Dubbi sull'origine dell'infezione l'anonimo poliziotto sembra averne ben pochi, qualcuno in più lo nutre sull'efficacia dei dispositivi di protezione individuale utilizzati in servizio: mascherina, camice e guanti in lattice che «evidentemente non sono stati sufficienti». Il contagio, invece, secondo l'uomo è arrivato «sul posto di lavoro», ed è «sicuramente motivo di rabbia e di angoscia sapere che era evitabile». Proteggendo meglio gli operatori, e magari evitando che «una persona malata, contagiosa» arrivi «sul mio posto di lavoro», sospira il poliziotto. Che aggiunge di non sapere niente della «sorte» toccata al migrante ammalato, e nemmeno della sua identità o provenienza.

«Non possiamo impedire che un ammalato arrivi nel nostro Paese, o che sbarchi sulla nostra costa - conclude il poliziotto - ma nel momento in cui arriva sulla costa, abbiamo il dovere di impedire che contagi altre persone, e

abbiamo il dovere di curare l'ammalato».

Ci sarebbe anche il dovere di non nasconderlo, l'ammalato, soprattutto se è un agente, visto che finora era stato escluso qualsiasi contagio dei poliziotti impegnati in «Mare nostrum».

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