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Una montagna di soldi non partorisce il divorzio

Inspiegabile la rottura fra Silvio e Veronica sulla fine consensuale del loro rapporto. L'entità del patrimonio dovrebbe favorire l'intesa

Una montagna di soldi non partorisce il divorzio

Le separazioni in Italia ogni an­no sono oltre 80.000. Delle qua­li, circa 70.000 si risolvono con­sensualmente: una parte, diret­tamente negli studi legali per poi essere ratificata nei Tribuna­li; un’altra,dopo l’inizio del con­­flitto giudiziario, si trasforma in transazione grazie agli eventi processuali, ai buoni uffici di au­torevoli e saggi magistrati, alla opportuna resipiscenza dei co­niugi combattenti. Le circa dieci­mila che restano, affollano gli scranni dei giudici, coi loro fasci­coli sempre più consistenti, e fini­scono in sentenza. Dopo anni di itigi, testimoni e peri­zie tecniche; a volte dopo tre gradi di giudizio e con il mol­tiplicarsi di cause satelliti: se­questri, pignoramenti, revo­che di donazioni, accerta­menti di partecipazioni so­cietarie, addirittura conte­stazioni della legittimità dei figli.

Con l’ovvia conseguenza che diecimila mariti e dieci­mila mogli investono per an­ni tempo e denaro nell'obiet­tivo di abbattersi reciproca­mente, con lo scopo preciso di sentirsi, ciascuno, vittorio­so della guerra intentatasi. Una guerra che, dimentica­no entrambi, è pur sempre cominciata con un bacio. C’è dunque da chiedersi co­me sia possibile che, due per­sone unite un tempo dalla più profonda intimità fisica, molte di loro unite nel tem­po, anche futuro, dall’indi­scutibile genitorialità, tutte, comunque sia, partecipi del comune patrimonio affetti­vo, abbiano la voglia e il co­raggio di fronteggiarsi con tanta malevolenza e così a lungo.

Le ragioni sono molteplici e pressoché infinite. C’è chi, per esempio, ha una fede profonda e considera il di­vorzio un peccato mortale, perché infanga il sacramen­to del matrimonio. Qualun­que sia il grado di vivibilità del matrimonio stesso. Dila­tare con tutti i sistemi possi­bili i tempi della separazio­ne, significa postergare signi­ficativamente il momento del divorzio.

C’è chi ha un carattere ter­ribile e non riesce a perdona­re la scelta del partner: un lungo processo può servire per non darla vinta, per met­tere in piazza tutte le colpe dell’altro, per autoconvin­cersi dell’inevitabilità della chiusura di un capitolo di vi­t a .

C ’è, ancora, chi crede di dover dare meno di quanto gli venga chiesto e chi aspira ad avere di più di quanto gli viene dato. Questi tipi di duellanti infaticabili sono certo i più numerosi. Batta­gliano per una differenza di 1.000-2.000 euro all’anno ma anche di 50-100mila, sen­za rendersi conto che i costi legali, negli anni, non pre­miano il risparmio o il guada­gno ipotizzati, a meno che non vi sia un gran divario tra la domanda e l’offerta in di­scussione.

Ci sono altri che litigano per i figli: chi li vuole troppo e chi non li vuole per niente; ma queste contese hanno la naturale conclusione con il raggiungimento dell’auto­nomia, prima di pensiero e poi economica, dei ragazzi. Dopodiché il gioco non vale la candela.

Ci sono, tuttavia, quelli che dicono di combattere per il bene dei figli che, inve­ce, costituiscono l’alibi per mascherare interessi perso­nalissimi: status sociale, aziende da gestire, casa da occupare a vita, fastidi e per­secuzioni da infliggere alla nuova coppia che intanto il, molto, futuro ex ha formato. Ma sono frequenti anche quelli che vogliono conti­nuare a gestire il potere sulla coppia che nel frattempo si è dissolta: mantengono caldo il conflitto giudiziario per po­tersi dire e dire - come Giu­cas Casella - «finirà solo quando lo deciderò io». In ge­nere questi impongono ipo­tesi di accordi consensuali che sono obiettivamente inaccettabili per la disparità di trattamento o per le clau­sole accessorie, neppure ve­latamente, vessatorie. Fin­ché, uno dei contendenti nel tiro alla fune, non rimane con la corda molle in mano quando l’altro ha perso inte­resse al gioco e l’ha lasciata cadere. E la causa finisce là dove è cominciata.

Ci sono poi molti che si affi­dano ad avvocati inesperti ma capaci di promettere lo­ro obiettivi davvero irrag­giungibili e spacciati come sicuri: è facile che la rabbia e il dolore della separazione, e l’ignoranza, preferiscano trasformarsi in speranza di vittoria, piuttosto di essere percepiti nella loro quotidia­na velenosità.

A volte, i malcapitati coniu­gi, finiscono nelle grinfie di legali che hanno tra loro qualche conto in sospeso da saldare: in tali casi, non è più l’animosità delle parti, ma quella dei loro avvocati a far­la da padrona e a segnare il tempo della giustizia. Spes­so lunghissimo, perché tra al­cuni operatori del diritto vi­ge il brocardo «chi la dura la vince». Invece, nella nostra giustizia, è vero proprio il contrario.

C’è infine una categoria di coniugi separandi (in preva­lenza mogli, per ora) che re­ma contro la possibilità di concludere in tempi brevi la vicenda della separazione. La strategia è semplice e, a volte, anche vincente. Si dà, dapprima, per scontato che la separazione debba essere consensuale, per cui, alme­no per un anno si coltivano in tal senso le trattative. Con calma e pignoleria. Alla fine, trascorso un preventivato lasso di tempo senza che sia completato il quadro dell’ac­cordo, ci si impunta su una condizione che - sideve esse­re certi - l’altro coniuge non accetterà. Qualche altro me­se per la valutazione, finché gli incontri tra le parti si in­terrompono. A quel punto, trascorsi altri mesi funziona­li alla redazione del ricorso, si aprono le schermaglie giu­diziarie. In genere il presi­dente del Tribunale prende a cuore la storia di due che sembravano quasi prossimi a un accordo; dunque, co­mincia il balletto fuori e den­tro la stanza del magistrato che, con proposte mediato­rie, si illude di arrivare là do­ve i legali non erano riusciti. Qualche mese di rinvio per riflettere e poi qualche altro per riflettere sulla riflessio­ne. Di mese in mese, sono passati due anni e, di fatto, il processo non è neppure ini­ziato, perché fermo alla fase presidenziale. Se ci fosse sta­to un accordo sottoscritto a suo tempo, mancherebbe so­lo un anno per far dichiarare il divorzio. Così, invece, tra i due trascorsi e gli almeno tre a venire, tra la fine della con­vivenza e quella del matri­monio si contano non meno di cinque anni. Forse di più, se ci si affida a ulteriori stra­tegie collaterali, più sofisti­cate e tenute segrete dai lega­li esperti.

Con queste modalità com­portamentali, in cinque-sei anni può avverarsi, con più probabilità che in tre, il mal­celato obiettivo del coniuge stratega: di assistere cioè al decesso dell’altro. Soprattut­to se non di primo pelo, di non ferrea salute e dedito, per esempio, ad attività, an­che fisiche, rischiose. Se poi questo è fumatore o alcoliz­zato o avvezzo a immersioni subacquee o viaggi intercon­tinentali, le probabilità di successo del temporeggiato­re, cioè di rimanere nell’asse ereditario di colui che non sarà mai ex, aumentano in misura esponenziale.

Ci si chiede in questi gior­ni, come mai stia durando co­sì a lungo la contesa tra Sil­vio e Veronica: in fondo si tratta solo di trovare un ac­cordo economico. Tra loro sembra davvero paradossa­le che non ci sia stata la possi­bilità di una mediazione. Si parla di richieste e offerte davvero uniche, non rientra­bili nella media delle discus­sioni economiche coniugali. Ma neppure loro sono nella media. Potrebbero trovare più di un punto di incontro.

Nessuno ovviamente si può esprimere, non cono­scendosi i dati. Tuttavia: a) c’è una reciproca domanda di addebito; b) se fossero pro­vate e accolte entrambe, l’unica a rimetterci sarebbe la moglie (che avrebbe a quel punto diritto al solo so­stentamento alimentare, ove non avesse mezzi pro­pri); c) se fosse sentenziata la colpa solo del marito, non per questo egli sarebbe tenu­to a pagare cifre più alte o a regalare case.

Dunque, che senso ha volere un lungo pro­cesso? Ma soprattutto, chi dei due lo vuole così lungo? Chi può avvantaggiarsene? E perché? Ai posteri l’ardua s entenza.

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