Politica

Moore urla alla censura ma è pronto a licenziare chi non pensa come lui

nostro inviato a Venezia

Cominciamo da ciò che non va. Da giornalista trentaduenne, fresco direttore del mensile Mother Jonas, la più popolare tra le riviste della sinistra americana, Michael Moore censurò un'inchiesta di Paul Berman, l'autore di Terrore e liberalismo, uno che i capitalisti, i conservatori e i fascisti se li mangiava a colazione, pranzo e cena. Era successo che in quel 1985 Berman era stato inviato dal mensile in Nicaragua, per un reportage sulla rivoluzione sandinista. C'era stato sei mesi e si era accorto che «i sandinisti erano antidemocratici, leninisti, violavano i diritti umani e non erano in grado di governare l'economia». Tornato negli States, trovò che al posto del direttore che gli aveva commissionato l'inchiesta ce n'era uno nuovo, Moore, appunto, a cui l'inchiesta non piaceva. «È un regalo a Reagan» gli disse per giustificare il suo rifiuto. Ne venne fuori un pieno, con scambi di accuse. Moore insinuò che Berman non sapesse lo spagnolo, e quindi, come faceva a capire la realtà nicaraguense? Berman gli rispose con un articolo scritto direttamente in spagnolo e gli diede del «bulletto», del «demagogo» e dell'«ignorantone». «Ho riso molto quando si è lamentato che qualcuno stava cercando di censurare il suo film. Detto da uno che aveva censurato il mio articolo...».
Una decina d'anni dopo ritroviamo Moore produttore, regista, autore e conduttore della serie Tv Nation. Ben Hamper, già operaio alla General Motors, suo amico e collaboratore fin da quando era un giornalista alle prime armi, lo descrive come una specie di padre-padrone: estromette o fa licenziare chi non la pensa come lui, immagina sempre che qualcuno complotti contro di lui...
Ancora qualche anno, Moore è strafamoso, Bowling for Columbine e Fahrenheit 9/11 hanno fatto il pieno di critica, di premi e di pubblico. Due filmakers, Debbie Melnyk e Rick Caine, suoi ammiratori, decidono di difenderlo dalle accuse dei suoi detrattori: manipolazione, uso disinvolto delle testimonianze e del materiale, assenza di contraddittorio... Per due anni gli stanno alle costole e il risultato è Manufacturing Dissent, Manipolare il dissenso. Se la realtà non è come la vede lui, Moore la cambia.
Francis Michael Moore è un americano di 55 anni, viene dal Michigan, è nato in una famiglia operaia. Per un po' i suoi hanno pensato che avesse la vocazione per il sacerdozio, ma il ragazzino ha saggiamente preferito fermarsi a una medaglia al merito dei boy-scout. Una certa tendenza alla predica e al messianesimo viene da lì, per il resto Moore è un perfetto concentrato dello spirito americano del self-made-man: è partito dal basso, è arrivato molto in alto, è una potenza multimediale: serie televisive, libri, conferenze, grida ogni due per tre contro la fine delle libertà, il rischio della dittatura, l'abbrutimento delle menti, in Italia il suo editore è Mondadori, e così il cerchio si chiude. Ricapitolando, Moore vive bene, anche se, guardandolo, si vede che mangia male e veste peggio.
Passiamo a quello che va. Dal punto di vista cinematografico è un genio. Ha rivoluzionato un genere, quello documentaristico, e ne ha fatto un'altra cosa, artisticamente più varia e coinvolgente. Prima di lui solo Gualtiero Jacopetti aveva fatto qualcosa del genere, con Mondo cane e Africa addio, ma era troppo solitario e troppo controcorrente per la sua epoca. Nei documentari di Moore c'è un insieme di vero, di verosimile e di costruito. Come ha scritto Matteo Sturini nell'esemplare Michael Moore. Cinema. Tv. Controinformazione (Edizioni Falsopiano), «la sua regia è tutta giocata sul montaggio e sul contrasto sia visivo che ideologico. Per rendere ancor più efficace questa idea di contrasto non si limita a utilizzare le immagini: infatti anche le musiche e le colonne sonore rivestono un ruolo rilevante in questo processo creativo».
Come accade a tutti quelli che hanno successo, Moore ha molti detrattori e moltissimi fan. Per i primi racconta palle, per i secondi è la verità. Sbagliano entrambi, e però entrambi hanno ragione. È che l'angolazione di parte con cui si guarda ai suoi film provoca uno strabismo mentale. Se la destra, quella americana e quella nostrana, fosse meno rozza e meno arrogante, riconoscerebbe che l'Irak è stato un pretesto, la guerra in nome della distruzione delle armi di massa una menzogna, che Bush è stato un cattivo presidente, che il sistema sanitario Usa ha enormi pecche, che l'economia non è il nostro destino. Se la sinistra, quella americana e quella nostrana, fosse meno presuntuosa e meno vittimista, riconoscerebbe che le idee sul capitalismo e sulle banche di Moore non sono poi così distanti da quelle del ministro Tremonti, che il comunismo all'americana è una barzelletta, che, per esempio, la retorica intorno a Bill Clinton, dallo stesso Moore definito «una mezza sega» non aiutava a capire la realtà, che gridare al regime con i soldi del regime è patetico.
Ciò che inoltre da una parte e dall'altra sfugge è che Moore fa film «patriottici», imbevuti dei valori e dell'essenza dell'american dream, ed è un po' l'incarnazione di quella middle class che espone la bandiera e si commuove quando c'è l'inno nazionale. Diceva Tocqueville che «la grandezza di un popolo si misura sulla sua capacità di porre rimedio ai propri errori» e sotto questo profilo Moore è un liberale.

È curioso che i liberali, quelli doc e quelli d'occasione, non se ne siano accorti.

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