"Vi spiego perché il delitto perfetto non esiste"

Intervista a Luciano Garofano, già comandante dei Ris di Parma e protagonista della nostra Academy

"Vi spiego perché il delitto perfetto non esiste"

Dall’omicidio di Serena Mollicone e Meredith Kercher al delitto di Cogne, al caso del serial killer Bilancia, a quello di Liliana Resinovich. Spesso è proprio chi per primo analizza i reperti e la scena del crimine a condizionare inevitabilmente indagini e verdetti. Ma se l’investigazione scientifica è decisiva per ricostruire i fatti e incastrare i colpevoli, a volte può anche indirizzare verso clamorosi errori giudiziari. Luciano Garofano - già comandante dei RIS di Parma, presidente dell’Accademia Italiana di Scienze forensi, consulente di serie televisive (“R.I.S.-Delitti imperfetti”) e di programmi tv (“L’altra metà del crimine”, La7d, “Quarto Grado”, Rete4), tra i super ospiti della masterclass in giornalismo investigativo di The Newsroom Academy - ci ha spiegato perché non esiste il delitto perfetto, ma solo "l’indagine imperfetta" in grado di comprometterne la soluzione.

Lei si è occupato dei più importanti, e più mediatici, casi di cronaca nera. In quali, l’investigazione scientifica è stata la chiave per la risoluzione?

Sicuramente molti, ma tra i più noti l’omicidio di Samuele Lorenzi, il delitto di Cogne, e il caso Bilancia. Perché in entrambi è grazie a tecniche analitiche abbastanza sofisticate per l’epoca che si è arrivati a una soluzione. Nel caso di Donato Bilancia, con l’individuazione di un serial killer atipico, esterno a qualsiasi schema del cosiddetto profiling. Quello di Samuele Lorenzi, invece, è un difficile omicidio avvenuto all’interno delle mura domestiche che soltanto l’utilizzo della Bpa, la Bloodstain pattern analysis, cioè la scienza che studia la forma, la dimensione e la distribuzione delle macchie di sangue, ha consentito di individuare il colpevole.

C’è un caso in particolare, dove secondo lei c’è stato un errore clamoroso e dove c’è margine per ulteriori analisi scientifiche in grado di riscrivere la verità?

Ce ne sono tantissimi, alcuni, purtroppo, ancora oggi. Vedo commettere errori soprattutto nelle fasi iniziali, quando intervengono la prima pattuglia delle forze dell’ordine o i soccorritori. Basti pensare al caso di Liliana Resinovich. L’avvocato del marito Sebastiano mi ha incaricato di rivedere tutti gli atti e mi sono accorto che gli indumenti esterni, a differenza di quelli intimi, della signora Resinovich non erano stati analizzati. E questo, con tutto il rispetto che posso avere per gli inquirenti, è un errore, perché sugli indumenti più esterni ci possono essere le tracce di chi l’ha aggredita, di chi l’ha portata fin lì, di chi ha passato con lei gli ultimi istanti.

Anche nei grandi casi del passato non sono mancati errori grossolani di procedura.

Lì ancora di più, perché allora le conoscenze erano meno radicate. Pensi, per esempio, all’omicidio di Serena Mollicone: sono stati fatti tanti sbagli che, come nei casi analoghi, si pagano perché l’alterazione dei reperti e la contaminazione diffusa sono state tali da non aver consentito, poi, di dare un senso alle analisi. Altro caso eclatante è l’omicidio di Meredith Kercher, dove alcune tracce non sono state analizzate opportunamente, perché le attività di sopralluogo e di repertamento non avevano rispettato i protocolli e le buone pratiche di attività di laboratorio.

Esiste un delitto perfetto o c’è sempre il dettaglio trascurato che tradisce il colpevole?

Assolutamente no, non esiste. E oggi più che mai. Pensiamo alla quantità di tracce, dirette e indirette, che lasciamo di noi stessi, sia attraverso i telefoni che i vari dispositivi informatici o le autovetture munite quasi sempre di GPS e quant’altro. E se il delitto perfetto non esiste, dobbiamo concludere che allora esiste un’indagine imperfetta. Spesso la mancanza di tempestività, la non osservanza dei protocolli, la fretta di concludere e arrivare a una soluzione e il concentrarsi su un’unica pista senza fare tutte le verifiche portano a degli sbagli imperdonabili. Che, poi, si traducono in errori giudiziari.

Qual è la traccia per eccellenza che incastra il colpevole di un delitto?

Oggi l’errore è più difficile, perché l’informazione è tale, sia attraverso i social che le serie tv o i libri, che anche il delinquente improvvisato è sempre ben informato. Indubbiamente, le tracce biologiche sono quelle che sfuggono di più perché sono invisibili, ma anche se si provvede a lavarle, possono essere comunque evidenziate, come per esempio quelle ematiche con il luminol. Sono proprio le tracce biologiche, che più delle altre, conducono ancora a un’individuazione certa del colpevole.

Un cold case del passato che le tecniche di investigazioni scientifica di oggi avrebbero risolto?

Sono tantissimi. Bisognerebbe mettersi lì e controllare con grande pazienza solamente una cosa: tutti quei cold case che hanno ancora dei reperti o delle tracce non ancora analizzate e, quindi, tutte potenzialmente utili per riaprire quei casi, questo perché il Dna una volta secco si conserva. Così, potremmo anche riaffrontare casi di trenta o quarant’anni fa.

Dalla celebre serie “R.I.S.-Delitti imperfetti” alle trasmissioni dedicate, l’analisi scientifica della scena del crimine continua ad avere successo in tv, e non solo. Perché questo aspetto, in apparenza tecnico e da addetti ai lavori, affascina così tanto?

Perché ha costituito un’alternativa al contrasto del crimine. A un certo punto abbiamo preso coscienza che in laboratorio, con delle tecniche più o meno sofisticate, potevamo dare delle risposte fino a quel momento impensabili. La stessa cosa è accaduta con i reperti informatici. Tutto questo affascina perché attraverso delle tracce impercettibili è possibile ricostruire qualcosa che sembrava apparentemente impossibile da rilevare.

Poi, lo scienziato che si mette lì al microscopio e che con grande pazienza scopre una tecnica in grado di dare una soluzione..beh ha un fascino incredibile. Ed è lo stesso motivo per cui vorrei fare in eterno questo mestiere.

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