«Nelle strade devastate più sorrisi che violenza»

Violenza come dicono alcuni media stranieri? Forse, ma «pochissima» e piuttosto «sorrisi», anche sui volti di chi ha perso tutto: Roberto Stephenson, fotografo italiano che vive e lavora ad Haiti da molti anni, e che in questi giorni ha percorso Port-au-Prince e dintorni in lungo e largo, nega che la Repubblica caraibica sia una bolgia violenta e selvaggia come vorrebbe l’immagine che emerge in tv e sui giornali. E, al contrario, spiega come gli haitiani, abituati nella storia e nel quotidiano a sofferenze e miserie, si siano già rimboccati le maniche. In un racconto fatto pervenire all’Ansa Stephenson - la cui famiglia sta bene, ma la cui casa poco fuori Port-au-Prince è stata seriamente danneggiata e per questo vive in una tenda - racconta: «C’è desolazione, paura, aiuti che arrivano ad Haiti, ma non alla gente. I morti sono per lo più stati tolti, ma non quelli sotto le macerie. Tanta puzza di cadaveri e di escrementi vari. Cumuli di macerie ovunque. Tanti i perduti, cari e meno cari, gente senza volto, come le rovine di case irriconoscibili, rase al suolo, senza dignità che ne sia restata. Un Paese condannato e senza fortuna. Una delle preoccupazioni più grandi, alla radio, nelle conferenze ufficiali, è quella che ancora una volta gli haitiani passino per un popolo di gente incapace, che non sa gestire l’emergenza, che non merita, gente cattiva, gente che ruba e stupra in situazioni come questa». «Gente piangere ne ho vista solo la sera stessa del grande sisma - aggiunge ancora -. Per lo più genitori che non ritrovavano i figli. Poi niente, mai. Quando sono entrato nei campi di sfollati, sono stati i sorrisi che mi hanno accolto, e ancora oggi, una settimana dopo, quasi senza aiuti, ad un sorriso, rispondono ancora con un sorriso, vero, genuino. E se si dice che c’è violenza, stupri e razzie, deve sicuramente essere vero, ma io ne ho vista pochissima pur avendo girato la città in lungo e in largo».
Stephenson parla poi di «senso di inutilità, tanto, perché gli aiuti non arrivano a destinazione, o ancora troppo poco. E paradossalmente sembra che ci sia più tensione fra i vari inviati delle 1.000 varie organizzazioni che fra la gente. E poi sono arrivati gli americani, i marines e i guardacoste e altri ancora, sempre con la loro arroganza, violenza verbale e aggressività, una vera manna per tranquillizzare la situazione». «Da ieri questo popolo abituato a far fronte alla catastrofe e alle sofferenze, si è rimboccato le maniche ed è tornato al lavoro. Certo, chi ha potuto, ognuno alla sua maniera e con le mercanzie restate. Il mercato era il mercato di un giorno qualunque. Io l’ho visto come il segno di un popolo che sa di non potersi permettere un momento di lutto, né di pausa perché non gli è concesso da nessuno», spiega. «Oggi la situazione è triste - conclude -. Quella del domani fa paura.

Il futuro prossimo, quando l’emergenza sarà passata e la massa di giornalisti che da un giorno all’altro hanno popolato le strade, come accade ciclicamente in occorrenza di ogni catastrofe, sarà scomparsa, allora i nodi veri verranno al pettine e allora sì che la situazione diventerà esplosiva. Stanotte ha cominciato a piovere. Io ho una tenda sotto la quale dormire, ma so che siamo in pochi ad avere questo privilegio».

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