Non aprite quell’«Hostel»

Di incubi così, come Hostel, la gente non ne ha, per fortuna, mai. Magari (se sta male), una breve sequenza, una sforbiciata sul naso, ma poi il sognatore si sveglia, o l’inconscio cambia storia. Perché la psiche, anche quella cui un po’ di horror non dispiace, si difende da materiali ed immagini che non potrebbe assimilare perché troppo antivitali, e quindi, se vi inciampa, cambia strada. Come ho fatto io che, richiesto da il Giornale di vedere il film, quando la tortura esagerava chiudevo per qualche istante gli occhi, per ripulirmi dallo schifo. Una tecnica, quella di come evitare le immagini inaccettabili, su cui l’Occidente ha riflettuto fin dalle sue origini. Platone, e il suo allievo Aristotele infatti, nelle lezioni all'Accademia, su questo erano d’accordo: la necessità, per l’uomo, di evitare (soprattutto da piccolo, ma anche dopo), di sottoporsi ad immagini angolose, aggressive, che, dicevano entrambi, «fanno male all’anima». Come mai allora, prima domanda che viene in testa, duemila quattrocento anni dopo gli occidentali se ne fregano della lezione dei maestri fondatori, ed anzi si accalcano (venti milioni di dollari il primo week end di proiezione negli Usa, il quadruplo del budget), per vedere il film prodotto da Quentin Tarantino?
La prima risposta che viene è che forse questa è una delle tante manifestazioni della febbre autodistruttiva di cui l’Occidente offre tante manifestazioni. Sarebbe stato bello archiviare questo film, povero di idee, di soldi spesi, di fantasia, di tutto, negli errori del cinema. Ma i soldi incassati finora in America (anche se in Europa dovesse andar male), costringono a prenderlo più sul serio. Non è solo cattivo gusto, ma anche patologia. Per giunta collettiva. Di che patologia dunque si tratta? Scomodare il Marchese Donatien De Sade, è purtroppo indispensabile, anche se viene da chiedergli scusa, per accostarlo a questa roba. È infatti sua l’idea che, essendo la natura cattiva, l’uomo per affermare se stesso, dovesse essere ancora peggio di lei. È da lui, e dal suo tempo (quello della Rivoluzione francese), che si sviluppa l’erotismo della sofferenza come fonte di piacere. Sade, però, rimaneva sostanzialmente nell’orizzonte della vita, anche se già amava la zona di confine tra vita e morte.
Qui, invece, siamo in piena passione per la morte. Ai frequentatori del club per ricchi perversi cui l’Hostel fornisce la materia prima, cioè giovani corpi umani da fare a pezzi, il cadavere interessa molto di più del corpo vivente (tendenza, questa, che Walter Benjamin aveva già individuato all’alba della società dei consumi). Sopratutto però, ciò che li appassiona è sì uccidere, ma prima ancora umiliare e terrorizzare il giovane. In questa patologia c’è, infatti, anche l’avversione per la giovinezza, la fobia contro la vita che avanza e cresce. Una malattia simile a quella che si manifesta nelle forme estreme di pedofobia: il far soffrire, fino a danni irrimediabili, i bambini. Il film allude subito, del resto, a questa vicinanza quando il futuro torturatore abborda in treno i ragazzi diretti all’ostello, mostrando la foto della sua bambina. L’immaginario malato espresso dal film, sia pur in maniera dozzinale, non si limita però a necrofilia e pedofobia, due modi di declinare il moderno gusto per la morte. Centrale è anche la passione per la frammentazione del corpo, il farlo a pezzi. Gli arti tagliati sono, certamente, anche dei falli mozzati e denunciano il gusto per l’autocastrazione che avvelena la nostra cultura.

Prima di tutto, però, mostrano un corpo-psiche frammentato, che non sta più insieme. Una caratteristica della follia. Non andate a vedere Hostel, dunque. Però pensateci. Che qualcuno l’abbia prodotto, girato, e che si paghi per vederlo, è molto inquietante.

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