Non è l’allestimento o il direttore a fare il «Nabucco»

Caro Granzotto, con un gesto clamoroso il maestro Riccardo Muti ha voluto estendere ai presenti al Teatro dell’Opera di Roma la protesta contro i tagli allo spettacolo decisi dal governo. «Non vorrei che Nabucco fosse il canto funebre della cultura e della musica» ha detto il maestro rivolgendosi al pubblico invitandolo a partecipare al coro del Va pensiero. Eccesso di zelo?
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No, caro Zecca: se c’è uno sensibile ai tagli al Fondo per lo spettacolo è proprio Muti, che essendo un maestro e un divo del podio pretende, giustamente, compensi adeguati. Resi possibili da forti iniezioni di danaro pubblico, denaro del contribuente, ai teatri lirici. Va però aggiunto che come espressione culturale il Nabucco resta il Nabucco anche se a dirigerlo non è Muti, ma un direttore d’orchestra dal cachet dieci volte inferiore. Il Nabucco resta il Nabucco anche se rappresentato senza allestimenti «d’autore» che, da soli, si mangiano una fetta consistente del bilancio. Il coro del Va pensiero resta quel capolavoro che è sia eseguito nello spazio scenografico di Jean Paul Scarpitta, con tanto di cenere e lapilli che cadono dal cielo, sia su un palcoscenico decorato da una semplice quinta di tela. Ma la cultura oggi si porta molto, la cultura è sulla bocca di tutti lamentandone i tagli, il suo essere “negata” dal perfido Tremonti e, più che mai, dalla perfidissima Gelmini. Nel primo dei casi confondendo la cultura con gli orpelli che le danzano intorno (e, nel caso estremo, confondendola con i cinepanettoni); nel secondo scambiando per cultura quella che è l’istruzione, la formazione alla quale sono deputate scuola e università. Lo studente che ha seguito con impegno (e passione) i corsi di medicina diventerà, seguitando ad applicarsi, un bravo medico. Lo stesso vale per lo studente di ingegneria o di agraria. E saranno tutti bravi medici, ingegneri e agronomi anche se non hanno mai assistito a una rappresentazione di Brecht, ascoltato Al gran sole carico di amore di Luigi Nono, letto la Bhagavadgita o andati in sollucchero davanti all’arte Dogon. Istruzione e formazione sono però eccellenti, ma non indispensabili, strumenti per poi farsela, la cultura. Che a differenza di quanto possano pensare i ragazzi dell’Onda non si può insegnare e dunque imparare (che sia così è una vecchia e tuttora solida convinzione comunista. Salvo che per il comunismo cultura equivaleva a indrottrinamento. E i maestri avevano nome Zdanov). Altro luogo comune, molto in voga di questi tempi, è che la cultura migliori l’uomo. Neanche fosse una pomata balsamica. Dando uno sguardo alla storia dell’umanità dovremmo piuttosto concluderne che caso mai lo peggiora, arricchendolo di sempre nuove nozioni per fare, e più efficacemente, il male. Naturalmente tutto dipende dall’uso che se ne fa e da come se la si forma, perché è così che vanno le cose: ciascuno è arbitro della propria cultura. Walter Veltroni, ad esempio, ha una profonda cultura cinematografica. Non vuol dire, può darsi di sì o può darsi di no, che ne abbia anche una storica o letteraria. Se sì, buon per lui perché non c’è niente di più confortante che l’appagare le proprie curiosità ampliando le conoscenze, nulla di più confortante che l’acculturarsi. Ben sapendo - o forse proprio per questo - che la cultura non è merce vendibile (come credono i ragazzi dell’Onda).

Il manager Luca Luciani, quello che invitava a imitare il Napoleone vittorioso a Waterloo - cultura, zero - è stato nominato, per i suoi indubbi meriti professionali, ai vertici della società. Come la poesia, la cultura non dat panem, però la sua mancanza non impedisce di riempirne la madia.
Paolo Granzotto

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