Non spetta a un tribunale decidere dove finisce la vita

Oggi nell’aula della Camera comincia la discussione sul cosiddetto testamento biologico, ma le opinioni appaiono ancora piuttosto confuse, fin dal titolo della proposta di legge. In realtà non si parla di testamento biologico, ma di «consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento», e sbaglia chi insiste sul paragone con le volontà testamentarie. Con le Dat (le dichiarazioni anticipate di trattamento, appunto) non si dispone di un bene materiale in previsione della morte, ma si stabilisce se rifiutare o no una terapia quando siamo ancora vivi, anche se non coscienti. Questa legge afferma un principio indiscutibile, sancito dalla nostra Costituzione: la libertà di cura. Finché siamo vigili nessuno può sottoporci a trattamenti che non vogliamo, e la legge nasce perché questa opzione valga anche nel caso in cui non siamo più in grado di esprimere i nostri desideri. La sentenza sul caso Englaro ha creato una situazione paradossale: in nome dell’autodeterminazione, i magistrati hanno indebolito il principio liberale del consenso informato. Eluana, infatti, il suo consenso informato non l’ha dato mai. I giudici hanno ritenuto di ricostruire la sua volontà di morire per disidratazione in base allo «stile di vita», ma un consenso informato, per essere tale, deve rispondere a due condizioni: ci deve essere il consenso, dunque una firma, e l’informazione, dunque un colloquio con un medico. Se il paziente a cui, alla vigilia di un’operazione chirurgica, fosse sottoposta l’informativa da firmare, si rifiutasse, sostenendo di averne già parlato con i genitori, il medico non lo giudicherebbe sufficiente. Non può bastare un’informazione casuale, approssimativa, non aggiornata, priva di basi scientifiche.
Eppure, è quello che è accaduto ad Eluana. L’autodeterminazione, concetto impregnato di ideologia, ha oscurato il consenso informato, un obiettivo meno ambizioso e più laico.
Qualcuno ha avanzato dubbi anche sul comma in cui la legge Calabrò sospende l’efficacia delle Dat in condizioni di urgenza. Su questo punto rimando alla risposta fornita con grande intelligenza da Antonio Socci, che ha anche lanciato un appello ai parlamentari per approvare la legge così com’è, in base alla sua dolorosa esperienza di padre. Quando si arriva al Pronto soccorso tra la vita e la morte, anche se si è coscienti, nessun medico chiede il consenso. Cosa accadrebbe, se non si desse per scontata la necessità di intervenire, prima di tutto? Altra questione assai discussa è la necessità che le Dat siano vincolanti per il medico. Il medico però, anche quando il paziente è cosciente, non è mai obbligato ad eseguire un trattamento se non corrisponde alle sue valutazioni in scienza e coscienza. Ieri, sul Corriere, Galli della Loggia ha obiettato che lo stesso principio liberale deve valere per qualunque professionista. Infatti è così: vale per l’architetto che non vuole aderire ai desideri del committente, o per l’avvocato che si rifiuta di adottare la linea di difesa suggerita dal cliente. Naturalmente, l’altro può cambiare architetto o avvocato, e il paziente (o per lui il fiduciario) può sempre fare altrettanto. Ma per il medico esiste forse un dovere in più, legato al giuramento di Ippocrate - non nuocere prima di tutto - e alla consapevolezza di avere tra le mani il bene primario di un uomo: la sua vita. Si ribatte, ma chi mi assicura che si terranno nel debito conto le mie volontà? In realtà il medico tenderà a eseguire i desideri espressi dal paziente, se non altro per il concreto timore di contenziosi giudiziari, un timore che ormai ha portato alla cosiddetta medicina difensiva.
Ancora Galli della Loggia (ma non è certo il solo) avanza il sospetto che con questa legge si voglia soltanto compiacere la Chiesa. I fatti indicano che è avvenuto il contrario: è stato il Parlamento a considerare la sentenza Englaro come un’indebita invasione di campo da parte della magistratura, sollevando il conflitto di competenze davanti alla Corte costituzionale quando ancora il mondo cattolico era sostanzialmente contrario a una legge in materia di fine vita. L’ultimo punto su cui è fondamentale fare chiarezza, è l’eutanasia.
Morire è diventato un diritto esigibile in molti Paesi, spesso sotto le spoglie di una «morte medicalmente assistita». Lo abbiamo letto nell’anticipazione di un libro del professor Veronesi, nel quale si invita a non usare più il termine - troppo screditato - di eutanasia, ma ad ammettere finalmente che «anticipare la fine della vita su richiesta del malato inguaribile venga considerata una cura dovuta, e non un atto omicida da depenalizzare». L’idratazione e l’alimentazione rappresentano, in questo senso, un confine necessario, una linea che deve separare nettamente il suicidio assistito e l’omicidio del consenziente (vietati dalla legge italiana), dal rifiuto delle cure, anche anticipato. Ed è per questo, perché questo confine venga cancellato, che si vuole evitare di legiferare, lasciando ai giudici la materia. Una seconda sentenza della Corte di Cassazione, infatti, renderebbe praticamente impossibile tornare indietro attraverso un voto del Parlamento.

Ancora una volta bisogna stabilire se la legge la debba fare il Parlamento votato dagli elettori, o se la decisione sulla vita e la morte delle persone vada affidata ai tribunali.
*Sottosegretario alla Salute

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