La zona della Statale 61, 300 chilometri di terra che corrono tra filari di cotone e fagioli cinesi, è nota a tutti come Delta del Mississippi. Dopo la Guerra civile e il nuovo impero del cotone, quella terra venne bonificata e le piantagioni si riempirono di neri. Uno scrittore descrisse la regione come «ossessionata dal cotone, dai negri, martoriata dalle inondazioni». Cerano migliaia di schiavi e tanti afroamericani (poi divenuti schiavi emancipati e mezzadri) sempre indebitati e in cerca di svago serale; per questo in senso lato il blues (il cosiddetto downhome, perché i canti di lavoro nei penitenziari vengono prima, così come le leggende che vogliono i primi blues ascoltati a Tutwiler, Mississippi, dallo spaccone W.C.Handy o da Big Bill Broonzy) è nato qui come testimonia Il blues del Delta (Willliam Ferris, Postmediabooks, 270 pagg, 21 euro, trad, Seba Pezzani) un classico tra storia e musica pubblicato per la prima volta nel 78 che finalmente vede la luce in italiano con prefazione di Marino Grandi, direttore della rivista Il blues.
Non il solito libro musicale, ma un approfondito saggio sociologico sul campo che racconta come, in pieni anni Settanta, per molti artisti il blues fosse ancora un modo per ritrovarsi insieme la sera a ballare (davanti a una pinta di whiskey distillato clandestinamente) spostando tutti i mobili di casa in un angolo, oppure sullaia. Alla faccia di tante rockstar, molti artisti qui suonano lo «one strand», un filo attaccato ad un muro. Lo fa ancora Louis Dotson, che quando smette appende il suo filo alla parete e paragona la sua casa al corpo di una chitarra, siccome entrambi fanno da cassa di risonanza, e lo faceva pure il giovane B.B.King. Cè chi, come il popolare Broonzy, usò la musica per evitare il lavoro manuale e chi, come Sonny Boy Watson, se nè andato a Las Vegas a fare lo chef.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.