Mobilità anno zero. Come saranno le città del futuro

Mi piace pensare che ogni città porti dentro di sé quel doppio battito: la promessa luminosa delle esposizioni universali e il brivido di un corridoio senza finestre

Immagine creata con Midjourney
Immagine creata con Midjourney

Ci sono romanzi che diventano orologi. Non misurano il tempo, lo svelano. “Nineteen Eighty-Four” di Orwell è uno di questi: un quadrante scuro che scandisce l’ansia del futuro con l’ago fisso sul controllo. È una profezia che non parla di astronavi, ma di sguardi. Il potere che ti osserva, registra, corregge. Mi piace pensare che ogni città porti dentro di sé quel doppio battito: la promessa luminosa delle esposizioni universali e il brivido di un corridoio senza finestre. Il futuro è sempre un compromesso tra una fiera e una caserma, tra padiglioni di vetro e stanze in cui qualcuno conta i nostri passi.

Nel 2050 la città somiglierà a un alveare. Più densa, più vecchia, più esigente. Un continente di umanità impilata in quartieri che chiedono servizi, aria, silenzio, velocità. Le mappe, del resto, hanno già cambiato lingua: la campagna si è ritratta, le periferie si sono fatte città, le città si sono fatte arcipelaghi. Dentro questi arcipelaghi nascerà un’altra cartografia, minuta e prossima: la città dei quindici minuti, la somma di piccole repubbliche con il pane, la scuola, la palestra, il medico e un teatro tascabile a portata di gambe. Non è nostalgia. È una tecnologia del vicino: progettare la vita come una passeggiata.

E tuttavia il futuro delle città non lo capisci finché non guardi l’automobile. L’auto è stata il romanzo d’educazione del Novecento: libertà privata su quattro ruote, paesaggi che scorrono come pellicole, un’autoradio che ti insegnava la misura delle distanze. L’auto ha inventato le domeniche, le fughe, i parcheggi impossibili, la geografia affettiva delle famiglie. Oggi quella mitologia si incrina. La macchina perde proprietà e guadagna servizio. Da possessivo a condiviso, da rumore a sussurro elettrico, da gesto a algoritmo. L’auto traduce la città e la città traduce l’auto: si contrattano dominî, si cedono corsie, si scambiano dati. C’è un momento preciso, la prima volta che sali su una vettura che guida da sola, in cui provi una vertigine: la libertà che ti aveva reso adulto è ora un protocollo che ti accompagna come un tutore gentile. È qui che Orwell sorride con la sua ironia nera.

Non è un processo maligno, è un’evoluzione. Le strade del 2050 saranno meno rumorose e più intelligenti. Le corsie dialogheranno con le auto come vecchi amanti che si capiscono con un cenno. La città non sarà più un campo di battaglia tra pedoni e lamiera, ma un’orchestra. L’auto autonoma entrerà e uscirà dal concerto, scomparendo quando non serve, tornando quando la chiami. I parcheggi scenderanno sottoterra, come certi rimorsi. Le superfici si libereranno per alberi, panchine, mercati, campetti dove gli adolescenti imparano il dribbling e la solitudine. Sarà un mondo più lento in superficie e più rapido nel sottosuolo, dove scorreranno metropolitane nuove e treni veloci che faranno sembrare vicine città che oggi ci paiono frontiere.

La domanda è: cosa sacrifichiamo? La città ti chiederà di barattare la sovranità del volante con la precisione dell’algoritmo. È un patto con la convenienza e con la sicurezza. Prevenire incidenti, fluidificare traffico, ridurre emissioni. Apparentemente non c’è nulla da obiettare. Ma ogni volta che un sistema funziona troppo bene, qualcuno prende nota del tuo tragitto. Sarà una città gentile e curiosa, dotata di memoria lunga. Non più telecamere a spiare, ma intelligenze diffuse a suggerire. C’è differenza, ma resta una traccia di inquietudine: la città che ti protegge può anche addestrarti. Sarà compito nostro disegnare il confine. La tecnologia deve essere una diga, non una diga con vista sul salotto.

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Intanto l’architettura cambierà pelle. I monoliti a uso unico ingrigiscono la città e la spengono quando arriva la sera. Nel 2050 gli edifici saranno coltelli svizzeri: casa, lavoro, artigianato, palestra, piccole biblioteche, terrazze-giardino. I piani si accendono a orari diversi, come un quartiere verticale. Le vetrine torneranno botteghe, non per folklore ma per logistica: riparare avrà più senso che sostituire, rammendare più fascino che buttare. Nei cortili risuonerà la voce degli anziani, perché il futuro sarà anche una lunga trattativa con l’età. Ci scopriremo demograficamente fragili e socialmente più mescolati. Le case impareranno l’alfabeto dell’accessibilità, gli asili si affacceranno sulle residenze e le RSA avranno pianoforti accesi nel pomeriggio. La città viva è una polis che non lascia indietro nessuno, non la somma di residenze chiuse a chiave.

Le infrastrutture, parola triste e meravigliosa, saranno l’ossatura invisibile di ogni eleganza. L’acqua raccolta e riciclata, l’energia prodotta sui tetti, la rete che respira con il meteo. La città produrrà una parte della sua luce come un albero produce ombra. Gli alberi, a loro volta, torneranno maestri. Viali che abbassano la febbre delle estati, muri che ospitano verde come se fossero scogliere. Il paesaggio non sarà un fondale, bensì una terapia. Non per romanticismo, ma per necessità fisica: resistere al caldo, far scorrere le piogge, pulire l’aria. Il cemento può imparare l’educazione.

E le strade? Le vedo come pagine bianche. Lì si scrive la grammatica del 2050: nelle precedenze, nei tempi del semaforo, nei silenzi. La città dei quindici minuti funziona se la rendi bellissima a piedi. Eppure il mito del viaggio non morirà. Sotto l’ordine urbano continuerà la voglia di partire, di accelerare, di sbagliare strada. Forse le auto volanti resteranno un capriccio ben organizzato, forse no. Ma la città sana non ride dei sogni: li ospita in un hangar, li mette in sicurezza, li lascia provare.

C’è anche un’altra responsabilità che non possiamo delegare agli ingegneri: la lingua. Le città del futuro avranno bisogno di parole nuove e di antichi alfabeti. Dire grazie a chi lascia il passo, salutare il vicino, riconoscere il diritto al silenzio. La convivenza è un software fragile. Se lo spezzi, la città si tramuta in hangar di solitudini ben cablate. Non basta progettare; bisogna educare. L’urbanistica è una pedagogia dello spazio.

Mi chiedono spesso se il futuro sia ottimista o apocalittico. Rispondo con una fotografia che non ho scattato: una strada di notte, la pioggia, un passante che chiude l’ombrello, una vettura che si ferma senza autista, il vento che muove un tiglio giovane. In quella fermata c’è un accordo: l’umano e la macchina si sono dati appuntamento a metà strada. Nessuno ha preteso tutto. È la misura che salva.

Orwell resterà sul comodino. Serve a ricordarci che ogni progresso ha una tentazione: trasformare l’efficienza in morale. Le città del 2050, se sapremo voler loro bene, non saranno regimi di vetro ma comunità di prossimità. Ci arriveremo non con una rivoluzione di gadget, ma con una cura ostinata del quotidiano. Il futuro non è una fiera né una caserma. È una casa con molte porte, strade che sanno attendere e auto che non pretendono più di essere l’unico racconto.

La libertà tornerà a essere un cammino. Il resto, il metallo, farà la sua parte senza pretendere l’ultima parola.

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