di Paolo Giordano
Allora chi lavrebbe detto. Quando è arrivato quel giocoso e nutriente caravanserraglio di Doc su Raidue, lapplauso è partito subito. Ecumenico. Evviva, è una nuova fase della tv, si diceva, una tv popolare ma non popolana, non inzaccherata di retorica e finalmente curiosa come può essere curioso un giovane. Insomma grande musica, non solo a denominazione di origine controllata ma pure dal futuro garantito (con autori come Porcelli e Videtti ca va sans dire). E poi show, e che show, oltretutto. Nessuno avrebbe detto che unoperazione così, la sublimazione della musica di qualità e il drastico superamento delle barriere di genere, sarebbe drammaticamente rimasta un unicum nella storia della nostra tv generalista. Il merito, ovvio, è di Renzo Arbore, un fuoriclasse rimasto sempre nella classe più nobile dellintrattenimento. Ma non cera solo lui, a Doc, a dettare i tempi di un giovanissimo Gegé Telesforo e di una Monica Nannini fatta apposta per quel ruolo. Latmosfera avrebbe potuto convincere Eduard Manet a ridipingere in versione riveduta e corretta quello spendido teatro umano e sociale che è La Musique aux Tuileries. Ma oggi lascerebbe indifferente, o quasi, un qualsiasi blogger under 20. Cera, in quegli studi tv, una mentalità ormai bannata, imperiosamente esiliata dai palinsesti. Doc era artigianale in senso buono. Improvvisato quasi. E sganciato dai due moloch che oggi sbranano i programmi tv: lesigenza forsennata degli ascolti. E lincedere marziale del ritmo. Oggi non si «montano» solo gli scandali o le polemiche nei talk show. Si montano anche i programmi, ormai tutti necessariamente sprinter, tutti centometristi impegnati a ritrovare sintonia con lesasperazione, visiva e condivisiva, cui il pubblico oggi si sta abituando. Doc era un cazzeggio di talento. Se arrivava James Brown con linestimabile Maceo Parker al sax, mica si poteva impacchettare tutto nei canonici quattro minuti. Magari cera da improvvisare. Da cambiare il copione seduta stante.
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