Che attorno alle opere pubbliche e ai soldi che servono per farle ci sia interesse e fervore non è una novità. Non cè epoca o Paese che - chi più, chi meno - non abbia avuto i suoi problemi di intrallazzi, tangenti, favoritismi e nepotismi. Nella penisola italiana non cè opera o monumento insigne che non abbia portato con sé qualche magagna del genere: nellantica Roma arene, teatri, archi e palazzi erano infiocchettati di mangerie e stecche; raccomandazioni e favoritismi sono stati per molto tempo allordine del giorno presso tutte le corti, in primis quella vaticana. Architetti, pittori e artisti del passato non erano tutti tenere mammolette ed erano spesso pronti a tutto pur di assicurarsi un incarico, una committenza, un pagamento. Quasi tutti i grandi geni del Rinascimento erano - ad esempio - molto attenti a farsi le scarpe lun laltro, alle proprie parcelle e a cercare i mecenati e i partiti giusti cui aggregarsi. Molti monumenti, edifici, strutture e opere artistiche sono stati pagati più del loro effettivo costo. Facevano virtuosa eccezione le due Serenissime Repubbliche: a Genova la proverbiale oculatezza del Banco di San Giorgio vegliava arcigna su ogni pubblica commessa e a Venezia un ferreo sistema di controlli incrociati impediva la gran parte dei «trusi».
Assodato che il vizietto della cresta sulle spese e di favorire gli amici è sempre esistito, va però osservato che ciò non ha impedito che si facessero lavori insigni, che si utilizzassero artisti e professionisti valenti e che la penisola si riempisse di opere darte di grande qualità.
Oggi viviamo un momento di particolare sfolgorio della corruzione: quasi non cè opera pubblica che non comporti un ampio corollario di stecche, tangenti, intrallazzi e favoritismi. La differenza rispetto al passato cè: lattuale italico ambaradan non produce opere di qualità ma schifezze e inutilità. Quasi non cè edificio pubblico che non sia brutto, inefficiente e scalcinato: cubazzi senza davanti e didietro, capannoni scrostati, ospedali che sembrano aeroporti e aeroporti che sembrano supermercati. Non si salva neppure la Chiesa che pure in passato ha prodotto cose bellissime: le chiese moderne sono nella loro quasi totalità delle stravaganze sforacchiate, progettate per tenere alla larga ogni afflato mistico. Cè una generale caduta di gusto estetico e di capacità di soddisfare esigenze funzionali e la pressoché assoluta incapacità a conciliare le due cose. Si dia una occhiata agli oggetti di cui parlano le ultime cronache: il palazzo del G8 a La Maddalena è un terrificante scatolone, la Fiera di Milano ricorda un campo rom high-tech, il veneziano Ponte della Costituzione è un scivoloso ammennicolo da salotto, la palazzina di Scajola davanti al Colosseo è robaccia degna delle peggiori case Aler.
Se la prima Roma imperiale e la seconda papale possono non essere stati esempi di virtù civiche, almeno hanno lasciato monumenti e pezzi darte gloriosi, la terza Roma ha ereditato gonfiandole tutte le cattive abitudini delle altre senza riprenderne qualità e vantaggi: a partire dal cosiddetto Altare della Patria (costato tre volte il preventivo, che è un mostruoso uppercut a un paesaggio urbano straordinario), la storia dellarchitettura, dellurbanistica e dellarte di Stato dellItalia unita è un campionario di orrori, una cura intensiva di Talidomide a quello che era il Bel Paese.
Si può quasi dire che si sia prodotta una estetica di regime che è in realtà inestetica e anestetica, irrorata di spocchioso rifiuto della tradizione e della storia, di modernismo paccottiglioso e ignorante, che ha centanni e si è ormai ridotto alle stravaganze, ai muri storti, alle trovate inutili e dannose.
Insomma, se un tempo si riusciva a fare la cresta anche sulle cose belle e utili, qui si ruba molto di più e si fanno cose brutte e inutili. Se si era costretti a perdonare a qualche potente colto e ad artisti e architetti geniali leccessiva propensione per le ricchezze terrene, ora si devono subire frotte di politici e progettisti esosi, corrotti ma soprattutto incapaci.
Si potrebbe quasi ipotizzare una scala di valori delle comunità, in cima alla quale ci stanno quelle che utilizzano onestamente i soldi pubblici per fare cose belle e utili, e in fondo quelle dove si sprecano risorse per produrre brutte inutilità.
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