Il paese costruito per gli alluvionati che non ci sono più

nostro inviato

a Catanzaro Lido

Per capire davvero l'Italia bisogna percorrere una strada infernale, una delle strade preferite dal Giro, e deviare in mezzo alle foreste per una decina di chilometri. Qui, a millecento metri, in bilico tra Tirreno e Ionio, dove la Calabria sa essere bella come un Canada, sopravvive a se stesso un villaggio dal nome molto strano: Nardodipace. È il più alto della regione. Fino a pochi anni fa, era anche il più povero d'Italia: ultimamente s'è visto superare da un concorrente appena poco più in là, Torre di Ruggero. Comunque possono superarlo in mille classifiche, ma niente e nessuno riuscirà mai a offuscarne un destino tanto patetico e grottesco.
La storia di questo paese è in fondo la storia personale di un uomo avviato ormai ai sessant'anni. Si chiama Antonio De Masi. Da quand'era ragazzo, con il suo paese, per il suo paese, sta combattendo una battaglia impari e disperata contro il più cinico e spietato nemico italiano: la burocrazia. Direttore amministrativo della scuola, per due legislature ha fatto pure il sindaco. Adesso è solo consigliere comunale. Ad accompagnarlo sempre, un'ossessione: consegnare le case nuove, costruite dopo la tremenda alluvione del 1973, ai compaesani. Gli anni sono passati, l'ossessione ancora no.
Riassunto della via crucis. L'antica contrada di Nardodipace subisce nei secoli una serie di flagelli alluvionali, che lentamente la costringono a ricostruirsi in punti più sicuri. L'ultima tragedia, quella del '73. Restano senza tetto 425 famiglie. Ecco dunque sorgere nella parte più alta del bosco il nuovo villaggio, ovviamente finanziato con i soldi pubblici. I lavori sono gestiti dalle celebrate Coop emiliane, eppure si concludono solo nel 1990. Purtroppo, di 425 abitazioni previste, ne giungono al tetto soltanto 256. Per le altre, regolarmente promesse, non bastano i soldi. Ma alla lunga il male è minore: a forza di aspettare, molti giovani emigrano e molti anziani inesorabilmente tolgono il disturbo.
All'alba degli anni Novanta, venti dopo l'alluvione, tutto sembra pronto per l'inaugurazione. È la nostra idea di ricostruzione rapida. I nostri tempi tecnici. E almeno bastassero. Invece no, la storia non finisce qui. Quando si apre il nuovo millennio, le case sono ancora vuote. E gli sfollati ancora fuori a guardarle, chiedendosi molti perché.
«I perché - racconta Antonio De Masi, bevendo il caffè - sono tanti, fumosi, indefinibili. La Lega delle coop diceva che il suo lavoro era finito, la Regione non faceva i collaudi. Nessuno decideva niente. Sciatteria, lassismo, insensibilità: c'è tutto il meglio del nostro campionario nazionale, in questa storia».
Nel frattempo, passando gli anni, le nuove case hanno già bisogno dei primi restauri. Altri soldi, sempre soldi. In tutto, dall'inizio, quasi cinquanta miliardi. Per trovarsi persino la ciliegia finale sulla torta: a cose e case fatte, ci si accorge che sono pure fuorilegge. Hanno l'amianto sul tetto. Sarebbero subito da smantellare. «Ho scritto in Regione e al ministero dell'Ambiente: mai ricevuto risposta. Ad un certo punto, ho capito chiaramente che in quelle case non saremmo entrati mai. Allora ho fatto di testa mia...».
De Masi è un uomo mite. Ma anche molto determinato. Come dovrebbe essere qualsiasi bravo sindaco d'Italia. Così, un giorno, lancia la sua sfida: «Ho cominciato a dare le chiavi. Assegnazione provvisoria. Incosciente? Me l'hanno chiesto in molti, me lo sono chiesto per primo io. Ma alla fine non mi sono fermato. Ha vinto una semplice domanda: sono più tossici i tetti in eternit, o trentacinque anni di attesa?».
Purtroppo, la sfida è più simbolica che reale. Attualmente, in attesa che qualcuno si decida a sostituire i tetti e a smaltire l'amianto, soltanto settanta case sono abitate. Nardodipace firma un autentico capolavoro all'italiana: adesso che le case sarebbero ipoteticamente disponibili, per più della metà restano vuote. Le altre? Nessuno ha più fatto richiesta. Le famiglie che ne avevano diritto, dopo l'alluvione del '73, si sono perse per strada. I vecchi sono morti, i giovani sono fuggiti. Tra quelli rimasti, ha vinto un nemico subdolo e letale: la rassegnazione. «A Roma dovrebbero venire qui, per comprendere realmente i danni della burocrazia. Che butta un'enormità di soldi per un paese fantasma, che tiene gli sfollati trent'anni in attesa. Ma che soprattutto, cosa più grave in assoluto, semina nella gente la sfiducia. Lo sa che cosa resta, alla fine? Un totale distacco dallo Stato. Difficile, poi, costruire una comunità civile...».
L'uomo parla con un decoro che gli fa onore. Ha incassato mille sconfitte, ma non appare vinto. Se ancora resta in piedi una speranza, in questi luoghi lontani dal potere, è grazie a gente così: un po' cocciuta, un po' idealista, molto seria.

Salutandolo, prima di ripartire sulle strade del Giro, verso altre Italie lontane, gli rivolgo la domanda più sfacciata: «Ma ancora è convinto che un giorno riusciranno a terminarle, quelle case?». La risposta è temeraria fino alla tenerezza: «Io ci credo. Noi calabresi siamo così. Questa è terra di insaziabili predatori, ma anche di inguaribili sognatori».

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