Il paradosso: più guadagni più sei infelice

Non è il solito adagio «i soldi non comprano la felicità», ma un nuovo filone di studio dell’Economia: ne parlano premi Nobel e studiosi internazionali in un convegno all’Università Bicocca

Pare che il monarca assoluto del Buthan, da qualche tempo, calcoli il successo della sua politica economica in Fil (Felicità interna lorda), invece che in Pil. Buona l’idea, ma pessima l’applicazione. Difficile che senza diritto di voto, con il 40 per cento di persone senza acqua potabile, per metà analfabeti, con percentuali di sopravvivenza di un neonato su due, i buthanesi se la passino bene. Però la felicità sembra davvero, per gli economisti più aperti alle incursioni dell’irrazionale nei diagrammi e nei bilanci delle finanziarie, il misuratore più attendibile del benessere di un Paese.
Per questo si studia come misurare la “felicità oggettiva” di un popolo, e affiancarla - se non sostituirla- ai parametri più tradizionali. «Il concetto di reddito, utilizzato in economia per dare a un tempo una misura dell’attività economica di un sistema e del benessere del sistema medesimo, è sempre più soggetto a critica ed è diffusa la persuasione che sia ormai inutilizzabile come indicatore di benessere».
Così spiega Pier Luigi Porta, direttore del Dipartimento di Economia Politica dell’Università Bicocca di Milano, da tempo impegnato nella ricerca dell’elisir di felicità in economia. E che a Milano in questi giorni ha organizzato un convegno internazionale con tutta la famiglia al completo dell’economia cognitiva, padri e nonni di un’analisi “eterodossa” della vita economica che mescola ragione e psicologia (da oggi fino a sabato, all’Università Bicocca, convegno internazionale «Capabilities and Happiness», ospite d’onore Amartya Sen, Premio Nobel per l’Economia nel ’98 per le ricerche sulla teoria della scelta sociale e del benessere e Professore all’Università di Harvard).
Non basta il Pil, dunque. Anzi, oltre una soglia di ragionevole benessere la ricchezza sembra fare più male che bene all’umore di uno Stato. Nelle classifiche delle nazioni conviene insomma tenere conto di parametri alternativi rispetto al prodotto interno lordo - le relazioni interpersonali, valori legati a famiglia, qualità dei servizi, sanità, fiducia nelle istituzioni -, oltre al “paradosso della felicità”: una volta raggiunto un livello di vita confortevole, ogni aumento di reddito apporta una certa diminuzione di felicità.
A questo sta lavorando il premio Nobel israeliano Daniel Kahneman, uno dei padri dell’economia comportamentale e pioniere (insieme ad Amartya Sen) di un approccio che tenga conto dell’irrazionalità delle scelte alla base della vita economica. Da psicologo di formazione (lavora all’Università di Princeton), Kahneman propone di basare la valutazione dei successi delle politiche economiche non solo sulla ricchezza prodotta ma su misuratori legati alla qualità della vita e alla soddisfazione degli individui rispetto alla collettività.
Qualche primo risultato del suo personalissimo «Indice del benessere nazionale», una specie di «classifica della felicità» internazionale, da abbinare al Pil nella valutazione dei progressi di un popolo: «I Paesi più felici - spiega - sembrano essere quelli del Nord Europa, mentre tra quelli più infelici c’è l’Italia. C’è una differenza sostanziale: nei Paesi nordici è alta la “life satisfaction”, una valutazione più oggettiva della qualità della vita, per esempio sui servizi, l'istruzione, i beni pubblici, la sanità, ma risulta bassa la felicità intesa come esperienza quotidiana, poiché legata e dipendente da fattori quali l'umore, il temperamento e lo stato d'animo. In Italia sembra essere il contrario cioè: alta la felicità soggettiva (temperamento, positività, stato d'animo), molto bassa invece la life satisfaction intesa come qualità della vita. Siete insomma allegri, con un temperamento gioioso, ma non soddisfatti».
Urge insomma, secondo il Nobel, una politica economica che faccia crescere il “Pil di felicità” oltre alla produzione, «con politiche serie a sostegno della famiglia che è la principale produttrice di beni relazionali».
Per la verità, gli economisti della “felicità” non si spingono fino al paradosso opposto, cioè che il povero stia meglio del ricco, e sono lontanissimi dal negare una correlazione tra ricchezza e felicità. Ma si tratterebbe, per loro, di un rapporto negativo. Più reddito porta maggiore salute, istruzione, opportunità, ma nei paesi avanzati il maggior reddito è associato ad un super lavoro che ha, in certi casi, effetti negativi sulla persona e sempre meno tempo per i rapporti con gli altri e per l’amicizia. L’investimento di risorse per l’acquisizione di beni non aumenta di per sé il benessere soggettivo - per la presenza di meccanismi psicologici e sociali che fanno sì che ai beni più costosi ci si adatti velocemente, o che assieme ai beni acquisiti crescano anche le nostre aspirazioni - ma condizionerebbe negativamente, almeno al di là di una certa soglia, la soddisfazione in altri ambiti della vita, quello relazionale su tutti.
Già, ma qual è la soglia di ricchezza utile? «Quella che serve per soddisfare i bisogni primari - risponde Kanhemann -, per poter condurre una vita dignitosa. Fin lì siamo sicuri che la ricchezza contribuisce al benessere, dopo questo punto il discorso si complica a tutte le latitudini perché la trasformazione della ricchezza in felicità dipende dalla cultura e dalla rete di rapporti interpersonali del soggetto».
C’è chi ha calcolato più pragmaticamente il livello di benessere ragionevole. L’economista inglese Richard Layard, della London School of Economics, sostiene che «un incremento di guadagno aiuta ad essere più felici sotto i 15 mila dollari all’anno, ma fa poca differenza al di sopra di quella cifra». E così, per converso, l’economista Andrew Oswald ha invece calcolato in dollari il “valore” di alcuni eventi della vita. Un matrimonio solido, ad esempio, “vale” la stessa felicità che possono dare 100 mila dollari l’anno. Un lutto è pari a una perdita di 245 mila dollari. Stime anche per il sesso, giudicato l’attività a cui gli individui associano il più alto livello di felicità. Aumentare la frequenza dei rapporti da una volta al mese a una a settimana sarebbe uguale a un incasso “una tantum” di 50mila dollari.
Un altro pioniere, Richard Easterlin, spiega al Giornale che «la felicità è costante anche se il Pil aumenta. La gente ha un’illusione prodotta dal denaro. Pensa che più soldi portino più felicità, ma non si accorge che appena ne hanno di più la loro idea di quel che serve per vivere bene aumenta più o meno della stessa misura».
È singolare che sia stato proprio Adam Smith, capostipite dell’economia classica intesa eminentemente come scienza della ricchezza, a riflettere per primo sul rapporto complesso tra felicità e ricchezza, e sui fantasmi che muovono le economie. Nella Teoria dei sentimenti morali (1759) descriveva come un “inganno” (deception) il motore segreto dello sviluppo economico, l’idea cioè che il “ricco sia più felice” o che “possieda maggiori mezzi per la felicità”.

In virtù di questa idea il poor man's son si sottopone a grandi fatiche, «lavora notte e giorno per acquisire talenti superiori ai suoi concorrenti», senza ricordare l’adagio scozzese secondo cui the eye is larger than the belly («l’occhio è più grande della pancia»), la capacità di godere ha dei limiti fisiologici e in fondo «l’uomo ricco può consumare poco più del povero».

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