Paul Simon, perle d’autore che non tramontano

Successo per il cantautore sempre legato agli evergreen dei tempi del sodalizio con Garfunkel. E i fan gli perdonano i limitati mezzi vocali

Cos’è una grande canzone? Un evergreen? Un brano dalla melodia elegante e orecchiabile con un testo che colpisca il cuore o la fantasia. Un brano che supera i limiti temporali e si ascolta con il giusto tasso di nostalgia e di ricordi. Un brano che ci ricorda la gioventù senza farci vedere il fantasma dei rimpianti. Per farla breve una grande canzone è - ad esempio - una canzone di Paul Simon, il poeta laureato in pop che è tornato in Italia, a 66 anni, per raccontarci la fresca eloquenza giovanile del suo repertorio. Lo ha fatto al Milano Jazzin’ Festival, pescando le perle migliori del suo sterminato repertorio, ripulendole dalle scorie, liberandole dell’alone dolciastro e melenso che spesso assumevano in coppia con Garfunkel, rivestendole - insieme a una superband - coi colori di un folk friabile e sempre più collegato al jazz, al rock, ai suoni etnici.
I suoi coloriti bozzetti stilistici partono da Gumboots e The Boy In the Bubble e retrocedono fino a Mrs. Robinson (versione eccezionale che non concede nulla al leziosismo), prendono il volo verso i ritmi afrogospel e zydeco di Diamonds On the Soles of Her Shoes e Graceland, ripiegano sul magico intimismo di Duncan (favola agrodolce) per poi alternare l’ispirazione di Slip Slidin’ Away e la carica ritmica di Train In the Distance seminando qui e lì (con parsimonia) pagine gloriose di Simon & Garfunkel come The Only Living Boy In New York, The Boxer e Sound of Silence. Proprio in questi due pezzi, senza la purezza vocale da tenore di Garfunkel, si rivela il genio di Simon, che emoziona i fan nonostante i limitati mezzi vocali. Simon ha una voce strana; il suo canto è secco e incisivo, dagli accenti ora ironici, ora drammatici, ora allusivi. E poi sa raccontare delle storie che combinano sogno, realismo, sentimenti, filosofia (qualcuno dice al limite della presunzione). Le sue ballate sono diverse, lontane dalla contestazione (ma non per questo meno profonde), e dedicate ai problemi del nuovo ceto medio americano che aveva scoperto il pop grazie ai Beatles e cercava canzoni d’autore in cui credere ed identificarsi.
È un personaggio chiuso, difficile, rigoroso che, partendo dal folk, ha scandagliato gli elementi più interessanti di ogni genere e stile evitando gli scopiazzamenti e le parodie. Prendete la brillantezza armonica di Me and Julio Down by the Schoolyard unita alla malizia del testo (storia omosessuale di due ragazzi sorpresi dai genitori), la cangiante chitarra acustica di Duncan con gli intermezzi indoamericani che ricordano El condor pasa, le brillanti tracimazioni rock - sul filo della psichedelia - di How Can You Live In the Northeast e ci troverete componenti rurali e metropolitane, toni pop e toni da predicatore profano a scardinare i canoni della ballata convenzionale. Il concerto è una festa anche se il suo pubblico è sempre piuttosto controllato.

Simon non tradisce emozioni; lui è lì, piccolo gladiatore, a catalizzare il pubblico solo con la forza della voce e della chitarra (senza dimenticare i preziosi virtuosismi della band), ché il physique du rôle non l’ha mai avuto, così piccolo e spennacchiato e ora anche bello rotondetto, ma non ha mai perso il lirismo e la carica narrativa dell’artista «ancora fuori di testa dopo tutti questi anni», come recita uno dei brani più applauditi.

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