Più federalismo e meno fisco: così si rimborsa il ceto medio

A metà Ottocento il grande giurista americano John C. Calhoun evidenziò un’opposizione cruciale: quella tra «produttori di tasse» (tax payers) e «consumatori di tasse» (tax consumers), tra chi insomma dà allo Stato più di quanto non riceva e chi invece ottiene più di quanto dia. È attorno a questa contrapposizione che ha ruotato il convegno organizzato a Milano dall’Istituto Bruno Leoni, nel corso del quale l’economista Bertrand Lemennicier ha presentato una sua ricerca realizzata per l’Iref e volta ad esaminare a chi vanno davvero le risorse della redistribuzione.
Anche se si rappresenta come orientato a favorire i poveri, il complesso apparato della tassazione e dei trasferimenti che sta al cuore delle democrazie occidentali segue logiche che non sono facilmente comprensibili. Ovviamente - come l’economista francese ha rilevato - esso risponde alle spinte degli interessi coalizzati ben più che a logiche di equità o efficienza, ma anche una volta che si è riconosciuto ciò non è facile capire quale sia l'esito ultimo di tale intrico di prelievi e favori.
Lemennicier ha vagliato con particolare attenzione la cosiddetta «legge di Director», formalizzata da un prestigioso economista di Chicago (George Stigler), secondo la quale sarebbero gli elettori «mediani» - che in prima approssimazione possiamo fare coincidere con i ceti medi - a trarre i maggiori benefici dalla redistribuzione, poiché nessuna maggioranza può prescindere dal loro sostegno. Ma Lemennicier ha espresso motivate perplessità al riguardo, dato che vi sono vari elementi che finiscono per perturbare tale schema.
In primo luogo, non è detto che gli elettori si dividano seguendo le logiche dei loro semplici interessi «di classe» e non è sempre vero, quindi, che il ceto medio e le classi più povere sostengano chi promette loro vantaggi. Molti colletti blu, ad esempio, non si riconoscono nei campioni della redistribuzione e spesso addirittura disertano le urne: anche perché sono persuasi che la loro partecipazione al gioco democratico non sia in grado di cambiare alcunché.
Per giunta, i rappresentanti il più delle volte non interpretano i rappresentati perché il ceto politico ha obiettivi tutti suoi e per realizzarli è essenzialmente portato ad espandere in maniera illimitata l’ambito della sfera pubblica. È interessante al riguardo come la volontà di aumentare il numero dei dipendenti pubblici a scapito dei lavoratori autonomi accomuni spesso le forze di sinistra e quelle di destra.
Ugualmente, è significativo che la maggior parte degli uomini politici avversi la concorrenza istituzionale e la competizione tra governi locali dotati di autonomia fiscale e di bilancio. I sistemi federali permettono infatti ai ricchi di trasferirsi nei sistemi a bassa tassazione, ma ciò causa una progressiva perdita di potere e risorse da parte del ceto politico.


È quindi legittimo ritenere, allora, che non sono tanto i ceti medi a trarre vantaggio dai trasferimenti, ma invece i membri del ceto politico-sindacale e quei gruppi (quale sia il loro livello sociale) che trattengono con loro i rapporti più stretti.

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