Piano di Hamas per scatenare la guerra civile

Gian Micalessin

Condoleezza Rice ha sicuramente un sacco di buoni propositi e una borsetta straboccante di «idee creative» come promesso alla vigilia di questa tappa israeliano-palestinese del suo tour mediorientale. Ma la situazione è quella che è, incancrenita da più di cinquant’anni e ogni giorno sul punto di peggiorare. Sarà forse utile dar appuntamento al consolato di Gerusalemme a Kadoura Fares e a qualche altro compagno palestinese dell’incarcerato segretario generale di Fatah Marwan Barghouti, ma poi bisogna fare i conti con la realtà. Certo rimettere in circolazione il «Napoleone di Ramallah», come lo chiamavano i suoi, rafforzerebbe Mahmoud Abbas, ma bisogna fare i conti anche con gli israeliani. Marwan Barghouti, dal loro punto di vista, è un terrorista condannato a cinque ergastoli. E non da una corte militare, come tanti altri palestinesi, ma dalla giustizia civile. Tirarlo fuori non sarà né facile né agevole e nell’attesa Mahmoud Abbas dovrà sbrigarsela da solo.
Altre soluzioni creative possono servire a far arrivare soldi e aiuti direttamente nelle tasche della popolazione civile e garantire loro «una vita migliore» senza far tracimare neppure un dollaro nelle casse del governo di Hamas. Condoleezza Rice s’impegna a farlo, ma questi, dal punto di vista del presidente, sono progetti a lungo termine. Il suo appuntamento più immediato è con quello che gli uomini dell’ala militare di Hamas hanno già battezzato «giorno del giudizio». Scatterà, secondo le rivelazioni contenute in un rapporto alla presidenza della «Sicurezza preventiva» di Gaza, non appena il presidente scioglierà il governo del premier di Hamas Ismail Haniyeh per dar vita ad un esecutivo di tecnici o indire nuove elezioni («Vedremo cosa si potrà fare in tal senso nelle prossime due settimane», ha detto Abbas). Poche ore dopo, secondo quel rapporto, le milizie fondamentaliste prenderanno il controllo della Striscia e dichiareranno guerra aperta a Fatah, al presidente e ad Israele.
I preparativi sono già in fase avanzata. Il rapporto parla di centinaia di tonnellate di munizioni e armi anticarro, di centinaia di mitragliatori entrati illegalmente dal Sinai negli ultimi mesi. Un flusso ininterrotto capace di trasformare i seguaci di Hamas in una grande armata popolare. Forse per questo Abbas continua a ripetere alla Rice di non volere la guerra civile. Sa bene che i suoi buoni propositi dovranno, entro breve, fare i conti con la realtà. Lo ammette anche lui: il dialogo con Hamas per dare vita ad un governo d’unità nazionale «semplicemente non esiste». Quindi spetta a lui prendere la situazione in mano, decidere se lasciare i palestinesi consumarsi in questo stallo senza vie d’uscita o cercare una soluzione decisa che metta fine all’embargo occidentale e consenta la ripresa degli aiuti internazionali ai palestinesi.
Delegittimare quel governo e rimandare a casa i ministri di Hamas senza un accordo preventivo significa però rischiare proprio la guerra civile. E ad evitarla, Abbas lo sa, non basterebbero neanche l’appoggio, l’amicizia e la solidarietà di Condoleezza Rice e dell’America. Ancor meno servirebbe in questo momento un ravvicinamento d’Israele. Certo il governo Olmert potrebbe anche concedere quel rilassamento nelle drastiche misure di sicurezza che limitano commerci e movimenti della popolazione civile palestinese, ma questo non fermerebbe Hamas. Nondimeno Abbas lo chiede e lo invoca dalla Rice. Lei da parte sua promette di lavorare per rendere possibile un vertice a breve termine con il premier Ehud Olmert. Neppure quello sembra il propellente di cui Abbas ha più bisogno. Il vertice, comunque irrealizzabile prima del rientro del premier israeliano dal viaggio in Russia di metà mese, resta un vertice dai risultati incerti. Da un summit tra un presidente dal futuro incerto e un premier senza un chiaro programma di governo ben difficilmente può saltare fuori qualcosa di produttivo. Anzi, l’incontro con il «nemico» in questo momento di difficile contrapposizione interna rischia di sminuire ulteriormente il prestigio di Abbas. Può, paradossalmente, dar voce alla propaganda di Hamas, già al lavoro per dipingerlo come una marionetta nelle mani di Israele e Stati Uniti.

L’accusa di lavorare per «riarrangiare lo scenario palestinese e adeguarlo ai programmi d’Israele e Stati Uniti» pronunciata ieri dal premier Haniyeh è apparentemente indirizzata solo al segretario di Stato Rice, ma nelle menti di molti palestinesi si estende automaticamente anche al presidente che la sta incontrando. E Abbas, mentre le stringe la mano per ringraziarla e salutarla, capisce di avere ancora meno tempo e di essere sempre più solo.

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